Ogni qualvolta mi imbarco nel compito di conversare di social media con le aziende – o meglio, persone che hanno aziende o detengono un ruolo di responsabilità al suo interno -, avverto sulla pancia un gap. Da una parte vedo il mio entusiasmo, la mia determinazione a mettercela tutta nell’esprimere come i social media possono costituire un importante vantaggio competitivo, come di fatto tutti noi ci siamo dentro e su come siano un aspetto vitale del “digital”, un sesto senso a cui le aziende non possono rinunciare per non perdere in competitività (ne ho parlato qui). Dall’altra parte, vedo spesso una diffidenza, una paura a lasciarsi andare per imbracciare questo cambiamento di paradigma.
Come ha ribadito Cristiano Nordio durante l’intervento a “Crisis Communication”, evento di Unindustria Treviso Servizi e Formazione, costituisce un percorso obbligato affidarsi al Marketing Bushido, codice d’onore dei samurai, basato su rispetto e valori. È necessario “tornare” ai valori, accorciando le distanze con le persone, che oggi, a seguito di questo nuovo potere dei social media, sono in grado di sanzionare i mercati.
La nuova valuta è la brand advocacy: siamo passati dal modello “awareness –> preferenza –> acquisto” al modello “consenso –> amicizia –> advocacy”. Le aziende non devono più guardare al consumatore medio, ma ai desideri e comportamenti d’acquisto degli innovatori, degli early adopters, di coloro che sono in grado di influenzare la reputation dell’azienda, con risultati diretti e netti sul suo fatturato. Il concetto chiave è affidato ad un tweet:
Le aziende erano abituate a riempire contenitori, ora dobbiamo coinvolgere le persone raccontando loro una storia e rendendole protagoniste. La ricetta da seguire ora è semplice: ascolto (comprendi cosa vogliono veramente in tuoi clienti), persone (non dati statistici), storie (dai alla gente qualcosa da raccontare), valore (cosa ti rende divers0?), emozioni (facciamo qualcosa di memorabile), engagement (coinvolgere, non convincere), verità (responsabilità di essere coerenti), passione.
Ma cosa succede con le aziende del nostro territorio? Permane un atteggiamento di cautela e diffidenza, tanto che possiamo affermare:
i Social Media sono come il sesso adolescenziale: tutti lo vogliono fare, ma nessuno sa bene come. E non vale il fai da te.
Devo ammetterlo: il successivo interessantissimo intervento di Daniele Chieffi, responsabile rassegna stampa web di ENI, che ha parlato di come il danno reputazionale per le aziende che incorrono in una crisis communication abbia ha un impatto diretto, pesante, e difficilmente rimediabile, mi è parso in questo scenario indelicato. Le aziende presenti, che come la maggior parte temono le conseguenze di un investimento errato e hanno paura del cambiamento, hanno reagito ponendosi tre quesiti:
- Una volta entrato nei Social Media, qual è la via d’uscita?
(risposta è: no, mi dispiace, non c’è. Al limite, puoi diminuire il livello di engagement)
- Posso decidere di non entrarci?
(risposta è: no, mi dispiace. Anche se non ci sei, converseranno comunque su di te)
- Se vengo coinvolto in una crisis communication, posso decidere di non rispondere?
(risposta è: se è una vera crisis, farai ancora più danni a non rispondere. Se è una sciocchezza, allora puoi provare a far finta di niente)
Le caratteristiche che contraddistinguono una crisis communication, che tale solo nel caso in cui la sua negatività è in grado di toccare l’asset fondamentale dell’azienda, sono:
- Amplificazione. Se qualcosa parte in maniera negativa, alla fine del percorso la sua negatività è aumentata di n volte. Ogni passaggio di conversazione aggiunge un qualcosa di negativo pensato dalla singola persona. Un post “sfortunato” di Patrizia Pepe su facebook è stato il responsabile della diminuzione del 50% di fatturato dell’azienda. Inutile dire che quel social media manager è stato licenziato (approfondisci qui).
- Velocità. La velocità della recente crisi dovuta alle dichiarazioni di Guido Barilla alla trasmissione radiofonica “La zanzara” è stata ripresa dai media americani ed è diventata trending topic su Twitter dopo soli 23 minuti (approfondisci qui).
- Capacità di penetrazione. La viralità garantisce che la notizia critica raggiunga in brevissimo tempo tutti gli stakeholder dell’organizzazione. Basta pensare al video in cui Alessandro Profumo balla ad una festa con un dipendente, ripreso dai giornali dopo la crisi Unicredit “Profumo balla, la banca affonda”. In questo caso, peccato che il video era stato girato più di un anno prima.
- Segmentazione e Microdimensionalità. La crisi può interessare solo un singolo cluster degli stakeholder aziendali. Per esempio la Nikon è stata costretta a ritirare dal mercato un obiettivo appena lanciato, ritirato perché una community di appassionati l’aveva pesantemente bocciato a causa della presenza di una (lieve!) dominante rossa.
- Anomalie tipologiche. Un qualsiasi genere di contenuto, anche non prodotto dall’azienda, può creare danni.
- Dannosità pervasiva. La permanenza sui motori di ricerca massimizza e rende permanente il danno. Basta provare a googlare
Gli errori di comunicazione non si contano: basta pensare al caso Pomì, o alla campagna di Enel “Guerrieri”. Ma non tutti i casi finiscono male: la notizia del ritrovamento di pezzi di vetro negli omogeneizzati Nestlè era una bufala. In questo caso i community manager seppero intervenire subito con un’adeguata contro-informazione. Ancora: come sta andando il fatturato della Costa Crociere? Sul Web si trovano articoli del tipo “Costa Crociere non naufraga: cresce fatturato“: verità oppure sapiente lavoro di community manager?
Cosa fare quando ci si imbatte in un problema di crisis management? La regola numero uno è, in questo caso, evitarlo. Gli errori si possono evitare prevenendoli: pensare avanti e a tutte le possibili implicazioni in ciò che comunichiamo. Tuttavia, dice Daniele Chieffi
Il web è il regno della bufala
Dobbiamo considerare l’impatto di dinamiche “veloci” e “senza approfondimento” che possono diffondersi: oggi, un ufficio stampa impiega il 70% del proprio tempo a correggere le informazioni errate messe in circolazione.
Insomma, siamo tutti vulnerabili e per questo è necessario pianificare una strategia di azione in caso di necessità d’intervento.
Vale per tutti? Diciamo di si, visto che anche chi cerca informazioni sul proprio conto, oggi inizierà “googlando” il nostro nome. Consideriamo, ovviamente, che se non ci chiamiamo Barilla ben difficilmente riusciremo ad entrare nei trending topics di twitter, per quando grossa l’avremo combinata.