Facebook con il suo nuovo motore di ricerca metterà in crisi Google?

Facebook introduce il nuovo motore di ricerca che assomiglia tanto a Google. Cosa dovremmo aspettarci?

Facebook ha reso disponibile da oggi negli Stati Uniti (e ben presto in tutto il mondo) una nuova funzionalità di ricerca, per permettere di trovare più facilmente le storie di cui stanno parlando maggiormente i nostri amici o le pagine a cui siamo collegati. La vecchia funzione di ricerca permetteva di trovare utenti, pagine o luoghi: ora, quando si inserirà una parola nel campo di ricerca, Facebook proporrà come primi risultati argomenti che contengono la parola digitata e su cui sono stati scritti molti post di recente.

Su Facebook vengono compiuti circa 1,5 miliardi di ricerche ogni giorno e sono contenuti più di 2 mila miliardi di post. Un enorme bacino di informazioni, quindi, che mira ad indebolire la posizione di Google come strumento di ricerca delle informazioni, ma basato su ciò che dicono le persone che sono collegate a noi.

È molto interessante seguire questa guerra in corso tra i due colossi: a dire il vero, qualche anno fa era stata proprio Google a sfidare Facebook su questo campo, mettendo sul motore di ricerca il concetto di authorship delle informazioni collegata al social Google+. Secondo le intenzioni di Google, le notizie diffuse o riportate dalle nostre cerchie di amici avrebbero avuto una maggiore visibilità nelle nostre ricerche.
Ma questo social non è mai decollato, tanto che ora è stato praticamente abbandonato da Google, mentre in tempi recenti feed di Twitter hanno ricominciato a comparire nelle pagine dei risultati di Google.
D’altra parte, Google sta guardando più in là, soprattutto dopo la nascita di Alphabet pare molto più concentrata sulle nuove tecnologie.

Nel 2014 impennata di vendite derivanti dal social commerce

Il volume delle vendite derivanti da social commerce sta crescendo velocemente: nel 2014 la  crescita è di tre volte rispetto al tasso delle vendite da e-commerce (62.5% rispetto al 17%)

Negli ultimi tempi si parla sempre di più di social commerce, soprattutto dopo che Facebook e Twitter hanno introdotto il tasto “buy”. Secondo una ricerca eseguita nel 2014 da BI Intelligence, i social media hanno oggi un forte impatto non solo a livello di vendite, ma anche, e soprattutto, sul processo di scelta (che influenza non solo l’ecommerce, ma anche le vendite nel retail).
Lo studio è stato condotto tenendo conto di varie metriche che permettono di valutare le performance dei diversi social, come ad esempio tassi di conversione, valore medio dell’ordine e redditi generati da condivisioni, like e tweet.

Si è abituati a pensare che i canali sui cui investire siano Facebook e Twitter, ma anche altri siti stanno avendo risultati significativi, soprattutto per quanto riguarda metriche specifiche, come il valore medio d’acquisto (o, per gli addetti ai lavori AOV: Average Order Value).
In particolare, stando a quanto pubblicato anche da Invesp la classifica è questa:

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Secondo Gianluca Diegoli, autore dell’interessantissimo libro Social Commerce:

I mutamenti che la Rete produrrà nel modo di creare, distribuire, promuovere, scambiare beni e servizi sconvolgeranno in modo radicale il sistema economico, in uno scenario che vedrà operatori di tutti i paesi vendere a livello internazionale. Il mutamento è economico e sociale ancora prima che tecnologico. (…)
Verrà messo in discussione il concetto di ecommerce freddo, self service: il compratore non è interessato solamente alla convenienza di prezzo e ma anche al lato sociale, culturale e di intrattenimento che l’ecommerce potrà svolgere.

Ora, tutti vogliono sapere su quali piattaforme focalizzare l’attenzione: ebbene, dai dati emerge come il social network che aiuta maggiormente i siti di e-commerce è Pinterest, il social basato sulle immagini. Secondo un’indagine di Piqora, una citazione su Pinterest, il cosiddetto “pin”, ha un valore medio di 0,78 dollari di vendite per un portale di commercio elettronico, dato in crescita del 25% rispetto al 2012 e da leggere in considerazione del fatto che ogni pin ha una media di condivisione di 10 volte. La piattaforma Shopify, soluzione che permette di realizzare siti di e-commerce, conferma: secondo i dati relativi alle prestazioni dei 25mila negozi online del gruppo, il traffico proveniente da Twitter è pari a quello che arriva da Pinterest, nonostante la popolarità maggiore del primo, e chi ha arriva dal social visuale ha il 10% di probabilità in più di fare un acquisto.

Ad oggi non possiamo considerare che l’e-commerce risulta ancora un fenomeno contenuto, rispetto al retail: nei paesi più “evoluti” arriva a valori intorno al 10%, stima media che ovviamente non tiene conto della decisamente diversa appetibilità che hanno i diversi settori merceologici. Se anche il social commerce arrivasse a coprire il 10% di questa nicchia, sarebbe già tanto.

Cos’è il klout score (e perchè dovrebbe interessarti)

Hai mai sentito parlare di klout score? Per gli appassionati di social media è un valore importante: è un punteggio (da 0 a 100) che esprime il livello della influenza sui social media, misurato da un algoritmo che valuta il modo in cui le persone interagiscono con i contenuti che posti.

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“Klout analizza milioni di singoli dati ogni giorno per comprendere chi sono i migliori creatori di contenuti, aiutarli a essere sempre migliori e aiutare i brand a entrare in contatto con queste persone”, spiega Joe Fernandez, cofondatore e CEO di Klout, azienda nata nel 2009.

Il punteggio “medio” sull’intera piattaforma è 41, il che vuol dire che da 50 in poi si tratta di un buon punteggio: non è facile arrivare sopra a 60, devi essere un buon produttore di contenuti in grado di interessare il tuo pubblico. Ovviamente, devi anche essere una persona che vive la rete, propensa a condividere le proprie esperienze.

Alla base del suo funzionamento, c’è un algoritmo, che analizza centinaia di azioni sui 15 social media che concorrono a creare il Klout: il retweet, il like e il reply su Twitter, Like, Share e Commenti su Facebook e così via. Quanto più i contenuti che produco sono interessanti, più il mio pubblico interagirà e quindi il mio klout salità. Inoltre, la piattaforma ti suggerisce quali contenuti condividere e chi seguire, con l’obiettivo di innalzare il klout.

Perchè dovremmo fare tutto questo? Quanto e perchè dovremmo credere al klout? Secondo un interessante articolo di wired, le aziende considerano questo parametro per valutare l’influenza in rete delle persone. Alle aziende piacciono gli influencer, perchè in un mondo digital sempre più sovraffollato di messaggi, se sono i nostri “amici” a parlare, dedicheremo loro molta più attenzione. I brand conoscono bene questo meccanismo, che ha rivoluzionato il modo di fare pubblicità. Oggi, oltre il 50% dei contenuti condivisi sui social media è creato da appena il 5% degli utenti, quindi se non parli con quel 5% sarà difficile entrare nel flusso, se non comprando direttamente costose ed inefficienti inserzioni pubblicitarie. Negli Stati Uniti ci sono aziende che concedono extra sconti se hai un klout score elevato: chi, meglio di un tuo amico, può parlare bene di un prodotto e un servizio da lui stesso provato?

Social media: pericolo od opportunità per le aziende?

Ogni qualvolta mi imbarco nel compito di conversare di social media con le aziende – o meglio, persone che hanno aziende o detengono un ruolo di responsabilità al suo interno -, avverto sulla pancia un gap. Da una parte vedo il mio entusiasmo, la mia determinazione a mettercela tutta nell’esprimere come i social media possono costituire un importante vantaggio competitivo, come di fatto tutti noi ci siamo dentro e su come siano un aspetto vitale del “digital”, un sesto senso a cui le aziende non possono rinunciare per non perdere in competitività (ne ho parlato qui). Dall’altra parte, vedo spesso una diffidenza, una paura a lasciarsi andare per imbracciare questo cambiamento di paradigma.
Come ha ribadito Cristiano Nordio durante l’intervento a “Crisis Communication”, evento di Unindustria Treviso Servizi e Formazione, costituisce un percorso obbligato affidarsi al Marketing Bushido, codice d’onore dei samurai, basato su rispetto e valori. È necessario “tornare” ai valori, accorciando le distanze con le persone, che oggi, a seguito di questo nuovo potere dei social media, sono in grado di sanzionare i mercati.
La nuova valuta è la brand advocacy: siamo passati dal modello “awareness –> preferenza –> acquisto” al modello “consenso –> amicizia –> advocacy”. Le aziende non devono più guardare al consumatore medio, ma ai desideri e comportamenti d’acquisto degli innovatori, degli early adopters, di coloro che sono in grado di influenzare la reputation dell’azienda, con risultati diretti e netti sul suo fatturato. Il concetto chiave è affidato ad un tweet:
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Le aziende erano abituate a riempire contenitori, ora dobbiamo coinvolgere le persone raccontando loro una storia e rendendole protagoniste. La ricetta da seguire ora è semplice: ascolto (comprendi cosa vogliono veramente in tuoi clienti), persone (non dati statistici), storie (dai alla gente qualcosa da raccontare), valore (cosa ti rende divers0?), emozioni (facciamo qualcosa di memorabile), engagement (coinvolgere, non convincere), verità (responsabilità di essere coerenti), passione.

Ma cosa succede con le aziende del nostro territorio? Permane un atteggiamento di cautela e diffidenza, tanto che possiamo affermare:

i Social Media sono come il sesso adolescenziale: tutti lo vogliono fare, ma nessuno sa bene come. E non vale il fai da te.

Devo ammetterlo: il successivo interessantissimo intervento di Daniele Chieffi, responsabile rassegna stampa web di ENI, che ha parlato di come il danno reputazionale per le aziende che incorrono in una crisis communication abbia ha un impatto diretto, pesante, e difficilmente rimediabile, mi è parso in questo scenario indelicato. Le aziende presenti, che come la maggior parte temono le conseguenze di un investimento errato e hanno paura del cambiamento, hanno reagito ponendosi tre quesiti:

  1. Una volta entrato nei Social Media, qual è la via d’uscita?
    (risposta è: no, mi dispiace, non c’è. Al limite, puoi diminuire il livello di engagement)
  2. Posso decidere di non entrarci?
    (risposta è: no, mi dispiace. Anche se non ci sei, converseranno comunque su di te)
  3. Se vengo coinvolto in una crisis communication, posso decidere di non rispondere?
    (risposta è: se è una vera crisis, farai ancora più danni a non rispondere. Se è una sciocchezza, allora puoi provare a far finta di niente)

Le caratteristiche che contraddistinguono una crisis communication, che tale solo nel caso in cui la sua negatività è in grado di toccare l’asset fondamentale dell’azienda, sono:

  1. Amplificazione. Se qualcosa parte in maniera negativa, alla fine del percorso la sua negatività è aumentata di n volte. Ogni passaggio di conversazione aggiunge un qualcosa di negativo pensato dalla singola persona. Un post “sfortunato” di Patrizia Pepe su facebook è stato il responsabile della diminuzione del 50% di fatturato dell’azienda. Inutile dire che quel social media manager è stato licenziato (approfondisci qui).
  2. Velocità. La velocità della recente crisi dovuta alle dichiarazioni di Guido Barilla alla trasmissione radiofonica “La zanzara” è stata ripresa dai media americani ed è diventata trending topic su Twitter dopo soli 23 minuti (approfondisci qui).
  3. Capacità di penetrazione. La viralità garantisce che la notizia critica raggiunga in brevissimo tempo tutti gli stakeholder dell’organizzazione. Basta pensare al video in cui Alessandro Profumo balla ad una festa con un dipendente, ripreso dai giornali dopo la crisi Unicredit “Profumo balla, la banca affonda”. In questo caso, peccato che il video era stato girato più di un anno prima.
  4. Segmentazione e Microdimensionalità. La crisi può interessare solo un singolo cluster degli stakeholder aziendali. Per esempio la Nikon è stata costretta a ritirare dal mercato un obiettivo appena lanciato, ritirato perché una community di appassionati l’aveva pesantemente bocciato a causa della presenza di una (lieve!) dominante rossa.
  5. Anomalie tipologiche. Un qualsiasi genere di contenuto, anche non prodotto dall’azienda, può creare danni.
  6. Dannosità pervasiva. La permanenza sui motori di ricerca massimizza e rende permanente il danno. Basta provare a googlare
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Gli errori di comunicazione non si contano: basta pensare al caso Pomì, o alla campagna di Enel “Guerrieri”. Ma non tutti i casi finiscono male: la notizia del ritrovamento di pezzi di vetro negli omogeneizzati Nestlè era una bufala. In questo caso i community manager seppero intervenire subito con un’adeguata contro-informazione. Ancora: come sta andando il fatturato della Costa Crociere? Sul Web si trovano articoli del tipo “Costa Crociere non naufraga: cresce fatturato“: verità oppure sapiente lavoro di community manager?
Cosa fare quando ci si imbatte in un problema di crisis management? La regola numero uno è, in questo caso, evitarlo. Gli errori si possono evitare prevenendoli: pensare avanti e a tutte le possibili implicazioni in ciò che comunichiamo. Tuttavia, dice Daniele Chieffi

Il web è il regno della bufala

Dobbiamo considerare l’impatto di dinamiche “veloci” e “senza approfondimento” che possono diffondersi: oggi, un ufficio stampa impiega il 70% del proprio tempo a correggere le informazioni errate messe in circolazione.
Insomma, siamo tutti vulnerabili e per questo è necessario pianificare una strategia di azione in caso di necessità d’intervento.
Vale per tutti? Diciamo di si, visto che anche chi cerca informazioni sul proprio conto, oggi inizierà “googlando” il nostro nome. Consideriamo, ovviamente, che se non ci chiamiamo Barilla ben difficilmente riusciremo ad entrare nei trending topics di twitter, per quando grossa l’avremo combinata.

Pizzeria di Brescia vieta l’ingresso agli “utenti tripadvisor”

La notizia è questa: una pizzeria di Brescia espone sulla porta d’ingresso un cartello di divieto (la notizia risale all’Ottobre scorso) d’ingresso agli utenti triadvisor. Prosegue

Siamo qui per lavorare bene al 100%, non per subire le frustrazioni di utenti di tale portale web. Per tanto siete pregati di sfogare la vostra rabbia interiore ed il vostro malessere altrove

Ora, il titolare della pizzeria denuncia tripadvisor per violenza psicologica, e punta ad una class action. La richiesta inderogabile è che tali utenti vengano tracciati attraverso una pec, in modo da poter essere perseguiti in caso di recensione negativa.

Incuriosito, sono andato a consultare il suo profilo, notando con stupore che non è poi preso così male: risulta classificato all’85 posto su 488 esercenti.

www.tripadvisor.it 2014-2-6 14 40 47

Ma, ciò che veramente lascia basito è il commento che lo stesso titolare fa ad una recensione neanche troppo negativa:

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Inutile negarlo, mi sono divertito un sacco. Ma mi sono soffermato a pensare quanti siano ancora gli imprenditori che si trovano ad affrontare la loro presenza sui social network senza alcuna preparazione. Possibile che tra i suoi dipendenti non ci sia qualche ragazzo in grado di spiegargli che le barriere tra internet e realtà oramai non sono così profonde, che la maggior parte dei commenti che lui stesso ha è positiva e lo aiuta ad ottenere la visiblità vitale a garantire una parte consistente del suo fatturato?
Inoltre, rispondere in modo cortese non farebbe altro che affermare il fatto che lui è lì per lavorare bene al 100%? Che senso ha lavorare bene solo per sè e senza voler ascoltare l’opinione di altri?

I tempi sono già abbastanza maturi da consolidare l’opinione che la presenza sul web di qualsiasi attività non può essere lasciata al caso? cioè al titolare – anche se inesperto – e, se va bene, a suo nipote? Mi ricordo che, fino ad una decina d’anni fa, capitava spesso di imbattersi in titolari di piccole e piccolissime aziende che si facevano il sito in casa, ora è la principale piaga dei social network. Tempo al tempo!

Mini guida ad un uso consapevole di twitter

Cos’è Twitter e a cosa ci può servire? Quella che sembra una domanda semplice in realtà non ammette una risposta semplice: twitter è un social network che consiste in un micro-blog, ovvero in un blog dove ciascun utente è obbligato ad inserire messaggi non più lunghi di 140 caratteri. Noi, gli utenti, siamo responsabili della risposta alla domanda “a cosa serve”: diciamo che twitter è utilizzato principalmente per informarsi, per seguire altre persone, per stabilire una connessione con chi ha interessi in comune con noi, oppure per diffondere le nostre idee. In quanto social network, può essere utilizzato infatti sia in modalità “attiva” che in modalità “passiva”. La sua caratteristica è la velocità e sinteticità: velocità in quanto i nostri “tweet” appaiono sulla timeline in ordine temporale e quindi vengono diffusi in tempo reale ai propri “follower” (quindi quelli più vecchi scompaiono piuttosto velocemente), sinteticità perchè il limite di 140 caratteri non mi costringe ad essere sintetico, e riassumere con una battuta ciò che voglio scrivere.

Tutto parte da due simboli, pilastri della piattaforma: la chiocciola ed l’hashtag (cancelletto).

“@” serve a connettere e comunicare:
“#” caratterizza il tweet e ne determina l’indicizzazione.

Questi due semplici simboli, inseriti in una frase di massimo 140 caratteri, fan sì Twitter venga usato nei modi più diversi:

  • informarsi: breaking news, cronaca, politica, emergenze. Ad esempio terremoti, alluvioni, …
  • seguire tendenze (“#”) e personalità (“@”)
  • entrare a far parte di una community, partecipando alla discussione
  • dare sfogo alla creatività. Ci sono profili (utili o inutili, a seconda del punto di vista) come per esempio @TuttoSulSesso.

Ecco le principali funzionalità di twitter:

  1. Retweet. Permette di ripubblicare un tweet altrui nella propria timeline, condividendolo così con i tuoi follower. Si retwitta per far sapere che ci piace un’informazione, oppure che non ci piace affatto. La netiquette suggerisce di non esagerare con i retweet, per non “sporcare” troppo la prorpia timeline.
  2. Mention (menzione). Una menzione è una citazione, cioè l’elenco dei tweet nei quali appare una @ seguita dal nostro account (per esempio @BrunoBarbieriEu)
  3. La stellina (i preferiti). Una stellina è un consenso dato ad un tweet altrui: a lui arriverà una notifica (fa sempre piacere essere stellinati)
  4. Hashtag (#). Sono il pilastro portante di twitter: servono a classificare e tematizzare il tuo tweet e ad introdurlo in un flusso di altri tweet con lo stesso hashtag. Gli hashtag più popolari diventano “trend topics”. Un esempio? (Quasi) ogni trasmissione televisiva ne ha uno: tra i più popolari #MasteChefit.
  5. Le liste. Se iniziamo a followare molte persone, la timeline diventerà presto un fiume in piena che ci travolge: sarà impossibile seguire il suo flusso. Le liste permettono di mettere un ordine inserendo dei filtri su ciò che ci interessa di più in quel momento.

Ti sono stato d’aiuto? Spero di sì! Sono ben accettate critiche e suggerimenti. Possibilmente su @BrunoBarbieriEu.

Facebook Graph Search: Facebook alla rincorsa di Google?

Graph Search, la nuova funzionalità di Facebook, recentemente presentata da Zuckerberg in persona: vediamo cos’è, come funziona, e se sono legittime le preoccupazioni sulla privacy azanzate da più parti

Ecco le principali novità della nuova funzionalità di ricerca, come affermato nella pagina di presentazione su Facebook: la funzionalità non è ancora attiva ma è possibile iscriversi ad una lista d’attesa

Con la ricerca tra le connessioni di Facebook, puoi cercare qualsiasi cosa sia stata condivisa su Facebook e gli altri possono trovare le cose che hai condiviso con loro, compresi i contenuti per i quali hai scelto l’impostazione Pubblica. I risultati sono quindi diversi per ogni persona

  • Il motore di ricerca ci metterà in contatto con le persone tramite gli interessi in comune: in questo modo potremmo entrare in contatto con persone probabilmente interessanti, a seconda dei nostri gusti e interessi personali.
  • Potremmo eseguire query con ordini semplici come ad esempio “foto scattate prima del 1990”.
  • potremmo cercare locali, ristoranti e punti d’incontro, tramite i commenti delle altre persone, giudicare e segnalare nuovi luoghi; una interconnessione molto più forte tra le persone che vivono vicino a noi. Questo il punto più criticato per le possibili violazioni alla nostra privacy. Tuttavia Facebook ci tranquillizza sottolineando il fatto che verranno fornite solo le informazioni che abbiamo deciso di condividere. Altra cosa poi il fatto che sia sufficiente, tenendo conto di cosa succederà agli utenti che per svariate ragioni non hanno molta sensibilità per la propria privacy.

Mark Zuckerberg con i giornalisti

Mi fa fatto sorridere l’affermazione di Zuckerberg “It’s not a Web Search”: fa finta di tenersi lontano da Google ma è una chiara risposta a Google Plus, a Search Plus your World. D’altra parte Google stessa è corsa ai ripari dalle possibili minacce di Facebook metetndo in campo un social network, Google+, che sta avanzando in modo costante per numero di utenti e che è destinato ad avere influenze sempre più significative sulle nostre SERP.
A me l’idea del nerd piace: ho l’impressione che abbia fatto centro nei desideri di una grossa parte di persone. Chi finora ha mai digitato in google query del tipo

  • Persone che amano fare trekking in montagna e che vivono intorno a Treviso
  • Fotografie che mi piacciono
  • Ristoranti a Venezia dove sono stati i miei amici

Graph Search si presenterà come una barra di ricerca nelle pagine degli utenti, che darà il titolo alle pagine stesse, una volta effettuata la ricerca. Questo stesso titolo sarà modificabile e permetterà di condividere delle visualizzazioni personalizzate dei contenuti cercati.
È previsto un ordinamento ben preciso per i risultati. Prima le amicizie più strette, poi il numero dei like e successivamente il numero di commenti. E ci sarà anche la pubblicità, ma non subito.

Al momento “la ricerca tra le connessioni di Facebook è disponibile per un numero ristretto di persone che usano Facebook in inglese americano”. È necessario, dunque, attendere per le altre lingue. Ne vedremo delle belle!