C’è chi sta bene a casa propria, sta bene nelle vesti del pantofolaio e passa la domenica seduto sul divano, a guardare la tv. Ma c’è anche chi non riesce a stare un attimo a casa. Il fenomeno è noto come wanderlust: la “sete” di scoprire nuovi posti non si esaurisce mai. Secondo alcuni studi il fenomeno sarebbe collegato ad un gene del DNA, il DRD4, che è associato ai livelli di dopamina nel cervello.
Un altro gene, il DRD4-7R, è stato rinominato il gene della Wanderlust, grazie alla sua correlazione con grandi livelli di curiosità e irrequietezza. Il gene non è presente in tutti: solo il 20% della popolazione ce l’ha ed è più comune nelle regioni in cui il passato e la storia hanno spinto i popoli a migrare.
Secondo un altro studio fatto da David Dobbs della National Geographic, il gene DND4-7R apparterrebbe a persone che sono “più predisposte al rischio, a esplorare nuovi posti, cibi, idee, relazioni, droghe o opportunità sessuali”. Dobbs non tralascia l’aspetto delle migrazioni, confermando che questo gene è più comune tra i popoli moderni che hanno affrontato (e tutt’ora affrontano) una storia di spostamenti e trasferimenti nel tempo.
Secondo un’altra ricerca di Garret Lo Porto dell’Huffington Post, il gene DRD4-7R è causato da un comportamento che risale ai tempi dell’uomo di Neanderthal, il che renderebbe chi lo possiede completamente “fuori controllo”.
Finora, non avevo mai letto il desiderio di andare in montagna con questa chiave di lettura. C’è un enorme quantità di persone che conducono durante la settimana una vita apparentemente normale, ma in realtà sanno che si stanno caricando per il weekend che passeranno in montagna. E passano tutte le sere della settimana a fantasticare studiando guide e documentandosi. Queste persone hanno al loro interno l’impulso all’esplorazione. Io stesso, in tempi neanche troppo remoti, avevo il bagagliaio della macchina sempre pronto con tenda ed attrezzi per arrampicare. Il venerdì dopo il lavoro si partiva, e non si tornava a casa quasi mai prima di domenica sera. Eravamo più giovani, potevamo dormire dove capitava: il più delle volte la tenda era piantata a poche decine di metri dall’automobile parcheggiata nei pressi dei passi di montagna.
Ho sempre pensato che sentiamo il bisogno di avvicinarci alla natura, nella misura in cui la via cittadina ci allontana, e nella misura in cui nella nostra testa si è creato uno spazio nuovo, diverso. L’uccellino che è nato un gabbia sarà sicuramente infelice, ma senza sapere in realtà cosa fare.
Nella nostra società è in atto un fenomeno parallelo: sono in aumento i casi di persone che fuggono dalla vita “cittadina” e vanno a stare in posti dove si vive ancora a contatto con la natura. Per esempio così hanno fatto i miei amici Marina ed Enrico, che a primavera del 2008 hanno lasciato la vita cittadina per prendere in gestione il Rifugio Crosta, a 1750 m. d’altitudine, all’imbocco del vallone di Solcio. Posto in un bellissimo alpeggio, dove gli unici rumori sono quelli dei campanacci, distante 12 Km dall’ultimo avamposto “civilizzato”, la piccola cittadina di Varzo. E il loro umore ovviamente è subito salito alle stelle, e mai sceso.
La loro storia è simile a quella di Maurizio e Carla, che nel 2003 lasciano Ferrara per andare a vivere a malga Sorgazza in Val Malene, una vallata a sud di Cima d’Asta, nel gruppo montuoso dei Lagorai.
Persone, un esercito di persone, che avevano bisogno di sentirsi migliori, e vivono il loro “into the wild” in una nuova dimensione. Purtroppo a Christopher McCandless, giovane appena laureato del West Virginia, andò decisamente peggio.