Chi ha almeno 40 anni ricorda ancora, quando era bambino, il tempo in cui i rifugi erano dei luoghi in cui ci si “rifugiava”. Per lo più si avvivava la sera, per partire la mattina seguente per una giornata in quota. Ci si accontentava di mangiare quello che c’era, senza badare troppo ai dettagli, e si andava a dormire in camerate di 15 persone.
Ora però, ce lo dice Ezio Alimonta, propietario e gestore del’omonimo rifugio Alimonta ai piedi della Vedretta degli Sfulmini (Dolomiti di Brenta) e presidente dell’Associazione gestori dei rifugi del Trentino:
Il modo di fare accoglienza nei rifugi, parlo dei rifugi alpinistici, è cambiato semplicemente perché negli ultimi vent’anni è cambiata profondamente la tipologia di chi frequenta le nostre strutture. Nel concreto sono letteralmente andati sparendo quelli che per più di un secolo sono stati i principali fruitori dei rifugi, ovvero gli alpinisti in senso stretto
Cosa succede ora? Pare che sia cambiato il modo di andare in montagna: oggi si arriva in rifugio per pranzo, dopo una passeggiata, e non ci si accontenta più di un semplice minestrone.
La scorsa estate mi stavo tranquillamente pranzando all’interno del Rifugio Treviso, quando all’improvviso scende un acquazzone e l’interno si riempie di persone. Fioccano le ordinazioni: vengono richiesti capuccini non troppo caldi e con latte a parte, latte macchiato ma mi raccomdando non troppo, caffè macchiato in schiuma cremosa e abbondante, e via dicendo… Percepisco la tensione di Mara che inizia a correre da un tavolo all’altro, mentre alcuni ospiti iniziano a spazientirsi per l’attesa. Intervengo: “Stai tranquilla, che sarà mai? Ciascuno aspetterà il proprio turno”.
Ricordo ancora lo stupore di Marina, gestore del Rifugio Crosta, che mentre ero presente ricevette la chiamata da un ospite che chiese per la sera “una camera singola con bagno privato in camera, grazie”.
C’è sicuramente un tempo passato in cui la sera, in rifugio, si cantava tutti insieme. Oggi, se lasci un windstopper incustodito sopra una sedia, dopo 30 minuti non lo ritrovi più (capitato anche questo, al Rifugio Pradidali, gestito da una persone squisita: Duilio Boninsegna). Ma capita anche di peggio: in alta quota scompaiono regolarmente piccozze e scarponi. Rassegniamoci, viviamo nell’era in cui se cerchi su Google “ladri in rifugio” viene fuori di tutto. Ma, paradossalmente, solo da pochi anni si inizia a parlare di economia del dono: sarà proprio perchè, mentre in passato era naturale, ora è diventata un bene preziosissimo.
Ma possiamo ora invocare un “ritorno” all’idea ormai sorpassata di rifugio come semplice ricovero? Probabilmente no, anche gli alpinisti in senso stretto si sono ormai abituati alle comodità. In realtà già c’è una distinzione fatta dalla natura, tra i rifugi facilmente accessibili e quelli non alla portata di strade e funivie. Più volte, camminando in montagna, mi sono chiesto perchè, a tutela della funzione di rifugio, non venga attuata una classificazione, in modo chiaro e immediatamente capibile dai fruitori. Ci sono rifugi che ora si trovano lungo strade ad alta frequentazione: caso emblematico è il Rifugio Passo Sella, ora trasformato in resort di lusso. Invoco davvero una classificazione a stelline: ai rifugi più spartani assegnerei dieci stelline, una stellina o mezza stellina al rifugio lungo la strada.