Il 29 maggio 1953, 60 anni fa, gli alpinisti Tenzing Norgay ed Edmund Hillary raggiunsero per la prima volta il tetto del mondo, a 8.848 m. Ma dopo questa grande impresa è diventata la montagna del pianeta più abusata
“Avanzavamo lentamente, regolarmente. And then we were there. Hillary davanti, io dietro di lui”. Dopo esservi arrivato vicinissimo nel 1952 con lo svizzero Raymond Lambert, Tenzing Norgay toccò infine la vetta dell’Everest, la più alta montagna della Terra, in cordata con Edmund Hillary. Il sogno di una vita per il giovane sherpa; e un’occasione d’oro per l’apicoltore neozelandese, a sua volta già esperto di Himalaya.
A sessant’anni di distanza e dopo che oltre cinquemila alpinisti hanno toccato i suoi 8848 metri, l’Everest oggi occupa spazi che esulano dalla cronaca alpinistica in senso stretto. Ancora resistono la grande valenza simbolica del “tetto del mondo”, (è pur sempre Chomolungma, in tibetano la “Dea madre del mondo”, o Sagarmatha, in nepali “Dio del cielo”); la retorica di quell’“inutile” che gli alpinisti si dannano a voler conquistare; una insindacabile, stupenda e talvolta ossessiva partita con se stessi, che è pur sempre all’origine di ogni avventura (o supposta tale). Ma la “gloria” – quella che John Hunt, capospedizione del 1953, volle dividere con gli svizzeri che un anno prima “avevano aperto la via” –, la gloria non è di questi tempi. (cit.Erminio Ferrari)