Si sta avvicinando la fine dell’anno. Si, lo so, il 2016 è stato l’anno del web mobile ma anche – questo l’ho sentito proprio – l’anno dell’e-commerce. Mi sono arrivate davvero tante richieste da parte di persone che avevano deciso di realizzare un e-commerce, e mi chiedevano di arrivare subito alla fine della storia, cioè quali fossero i trucchi per vendere on-line.
Tutti i dati a disposizione di dicono infatti che l’e-commerce è una realtà, non è il futuro, sia in Italia che all’estero. Non voglio qui iniziare a snocciolare dati, basta solo andare al report dello IAB Forum di quest’anno, appuntamento a cui non manco da qualche anno. Allora, perchè – mi chiedono – sono ancora così poche le aziende italiane che vendono on-line? Io non lo so, anzi non credo, che siano davvero poche: secondo un rapporto di UnionCamere, negli ultimi sei anni sono cresciute in media del 25%, più o meno del 150%. Certo, vi sono enormi differenze tra un settore e l’altro, e alla base il fatto che i noti marketplace raccolgono la maggior parte della fetta di mercato. Ma comunque ci troviamo in uno scenario in cui il giro d’affari che in Italia nel 2016 è cresciuto del 18% e sfiora i 20 miliardi di euro, anche se siamo ancora al 5% del retail (all’estero le percentuali raddoppiano).
Allora, mi dicono, dimmi cosa devo fare per vendere! Svelami il trucco, o tu che sei il mago del computer. E allora io inizio a fare domande, anzichè dare risposte. Cosa vendi? A che prezzo (rispetto ai tuoi competitor), il tuo prodotto si presta ad essere venduto on-line? Con quali vantaggi per chi compra? Accanto a queste domande, è importante capire quanto quanto valore ha il brand e come viene percepito, prima di pensare a mettersi a vendere. Arriviamo subito a parlare di identità dell’azienda e comunicazione del prodotto. Tutte cose che ovviamente costano tempo e fatica.
In realtà, quando abbiamo tutte queste cose, possiamo veramente essere pronti per vendere on-line. E allora i trucchi saranno ovvi, direi quasi banali. Posizionamento naturale nei motori di ricerca, posizionamento a pagamento – attraverso campagne di advertising mirate -, promozione attraverso social media, spesso anche con email marketing, sono tutti trucchi per portare al successo. Tuttavia, per farli rendere bene servirà una buona capacità di leggere il consumatore attraverso i dati – i big data – e di condensarli in azioni di investimento concrete e misurabili.
Categoria: Marketing digitale
Al centro la relazione con il cliente
Il “tono di voce” che usiamo quando ci relazioniamo con qualcuno è un aspetto importantissimo per rendere efficace il messaggio. Si tratta di un aspetto che è innato a noi: applichiamo senza rendercene conto questo concetto anche senza aver studiato e concettualizzato gli aspetti che stanno alla base del fenomeno. Usiamo linguaggi diversi in funzione del contesto e dell’interlocutore: quando ordiniamo un caffè al bar, quando dobbiamo parlare ad una platea, quando siamo in ascensore con uno sconosciuto. A volte c’è di mezzo l’imbarazzo per non saper se dare del lei o del tu. Le nostre parole cambiano a seconda di quanto siamo coinvolti nell’argomento, a seconda di quanto sappiamo essere importante ciò che diciamo: penso ad esempio all’importanza di un colloquio di lavoro, che può cambiarci la vita.
Nella scrittura vale lo stesso principio, tuttavia non sempre sappiamo chi ci leggerà: talvolta non conosciamo il nostro interlocutore, e questo aspetto ci mette a disagio perchè siamo indecisi su quale tono sia più indicato.
Spesso, quando si scrive di un prodotto o di un servizio, vorremo che tutti si sentissero coinvolti – senza escludere nessuno – eppure sappiamo che non è possibile. Il linguaggio si riduce allora a descrivere quanto fantastico è il nostro prodotto, e quali incredibili vantaggi disporremo se lo acquistiamo. Mettiamo al centro il prodotto, e noi relegati alla funzione di meri utilizzatori. Usiamo verbo come “consentire” e “permettere”, che fanno cadere dall’alto anche il migliore dei vantaggi: la persona usata è il noi, che conferisce al discorso una sorta di intaccabilità.
In questo modo, tuttavia, avremo creato una distanza incolmabile tra noi e il cliente: allora dobbiamo ripartire mettendolo al centro, facendolo sentire al centro della storia che gli stiamo proponendo, parlandogli in modo sincero dei suoi vantaggi piuttosto che dei nostri benefici. Mettersi sullo stesso piano è diventata la “nuova” (uso le virgolette perchè tanto nuova non è più) urgenza: dobbiamo parlare la sua lingua, e per far questo è indispensabile prima di tutto conoscerla. Ascoltare le persone che usano il nostro prodotto è il primo passo da fare, per mettersi sullo stesso piano e capire cosa veramente è importante per loro. Solo così possiamo migliorare il prodotto e attrarre a noi delle persone che porranno fiducia su ciò che stiamo raccontando.
Quante volte invece si pensa solo alla distribuzione del messaggio, a raggiungere più persone possibile? Il più delle volte non sono esenti da questo atteggiamento neppure i luoghi di incontro con le persone, i social media, perdendo l’opportunità di stringere una relazione di fiducia che in latri modi non è possibile avere: penso ad esempio ai casi in cui c’è una catena di distribuzione tra il prodotto e il cliente, che funziona da barriera che sta a noi abbattere.
Colpo di scena: l’algoritmo di Facebook cambia ancora
C’è sempre tanta gente che protesta ogni volta che l’algoritmo di Facebook, ovvero l’insieme delle regole che determinano la visibilità dei contenuti altrui, cambia. Quello che si chiama news feed sceglie infatti ciò che è più importante per noi, e ce lo fa vedere prima di tutto il resto (i contenuti che Facebook ritiene che non ci interessino). Da Dicembre 2015 ad ora l’algoritmo è cambiato ben 4 volte, il che sta ad indicare che questa cosa è particolarmente importante. La cosa che sta succedendo è che stanno diminuendo, e di tanto, le condivisioni che riguardano post con link esterni – cioè che portano su siti esterni -, e stanno aumentando notevolmente le condivisioni di contenuti che incentivano all’utente a passare più tempo all’interno di Facebook (ma va?). Ecco i due grafici:
Ad essere maggiormente colpiti sono i contenuti delle pagine aziendali, proprio quelli che molte aziende usano per ottenere visibilità. Per molto tempo, sicuramente troppo, le aziende hanno pensato che Facebook fosse uno strumento fantastico per raggiungere i loro “amici”, ora è arrivata Facebook ad aiutarci a vedere di meno ciò che non ci piace, ovvero la pubblicità. Dobbiamo ringraziare Facebook che ci dice, con tono amichevole, «abbiamo migliorato il News Feed perché tu possa vedere le storie che sono più rilevanti per te». Secondo me era fondamentale che qualcuno ci ricordasse che i social media sono nati e si sono sviluppati per costruire relazioni sociali, prima che commerciali. Facebook pretende questo dalla sua piattaforma, e sa che se questo non accade, è destinata a morire. E non gli importa nulla dei soldi che le aziende spendono per gestire le pagine aziendali, non gliene importa nulla se ci sono aziende che ci investono quasi tutto il loro budget, ed ora c’è qualcuno che si sta mettendo a piangere.
Anzi, sembra quasi a dire, con il sorriso stampato sulla bocca: ma non potevi pensarci prima a costruire una tua strategia digitale pensando a quali strumenti e in quale modo usarli per costruire una relazione autentica con i tuoi clienti?
Ora Google penalizza i siti non responsive
Sappiamo già che la maggior parte del traffico web avviene da dispositivi mobile: per migliorare l’esperienza da mobile sul motore di ricerca, Google ha introdotto un aggiornamento sul suo algoritmo di posizionamento, penalizzando i siti non responsive, ovvero la cui visualizzazione non si adatta alla dimensione ridotta degli schermi dei dispositivi mobile.
Da Aprile 2015, dopo l’update denominato Mobilegeddon, i siti non responsive venivano già penalizzati nelle ricerche effettuate da mobile. Ma, come ha spiegato in un post Klemen Klobove, “Cercare su Google una risposta buona e rilevante, non dovrebbe dipendere dal device utilizzato. Si dovrebbe ottenere la migliore risposta a un’interrogazione su smartphone, tablet o desktop”.
I siti che non superano il test per verificare se il sito è mobile-friendly dovranno correre ai ripari in poche settimane.
Uno studio di Adobe sulle attività dei consumatori su siti di marca dal secondo trimestre 2014 al secondo trimestre 2015 ha rilevato che il traffico organico a siti non ottimizzati per la visualizzazione da device mobili è sceso del 10% nei primi mesi dopo il Mobilegeddon. Questo ha inciso anche sui budget marketing: il calo del traffico sui siti ha fatto salire i costi della spesa per la ricerca su mobile con un cost per click in aumento del 16% anno su anno mentre il tasso di click-through è sceso del 9% rispetto allo stesso periodo. In altre parole, le imprese hanno quindi pagato di più per ricevere meno traffico. Questo per dire che il costo conseguente all’avere un sito non responsive non è più giustificato.