Cosa succede su internet in un minuto, e cosa ci possiamo fare

Ogni minuto su internet succedono un sacco di cose. Ognuno di noi è lì dentro, ritagliandosi la propria fetta di torta. Per esempio io non sono solito fare gliswipes su Tinder, un’app di dating che ti geolocalizza per individuare chi è interessato vicino a te.
Questa infografica di VisualCapitalist rappresenta uno spaccato sulla vita delle persone, oggi. Persone che usano internet per cercare informazioni, per rilassarsi ascoltando musica, per rimanere in contatto con i propri amici e per fare acquisti. Il 73% di questo tempo lo passiamo sullo smartphone (+48% negli ultimi due anni, ci suggerisce l’ultimo rapporto AudiWeb), e si tratta di un’ora e mezza al giorno.
Tutti questi numeri ci dicono che appena dietro l’angolo ci aspettano delle grandi opportunità, sta a noi saperle cogliere – se ci interessa – ma non possiamo farlo procedendo in una direzione casuale: è fondamentale avere una propria strategia digitale. Il punto è proprio questo: esserci non basta, ci vuole consapevolezza che si può costruire se abbiamo l’umiltà di comprendere che è necessario impegnarsi, e siamo in grado di liberarci dai nostri schemi, sia mentali che di business. Tutti questi media sono lì, belli e apparentemente alla portata di tutti, ma le cose non stanno realmente così.
Se saremo in grado di compiere questo passo di consapevolezza, potremmo raggiungere la necessaria freschezza mentale, altrimenti saremmo solo degli ottusi che si compiacciono della propria mediocrità.

Come mettersi in regola con la nuova normativa sull’utilizzo dei cookie

A pochi giorni dall’entrata in vigore della nuova normativa sull’utilizzo dei cookie, non mi sorprende affatto la confusione che vaga ancora intorno. Pochi hanno delle idee su cosa fare, alcuni hanno molte idee ma confuse e molti non ne hanno proprio. Secondo una ricerca di Federprivacy

Il 67% dei siti italiani mancano di una idonea informativa sui cookie e non chiedono il consenso al loro utilizzo nel “form”.

Ma, secondo ilsole24ore,  italiano su tre non legge le normative sulla privacy quando utilizza un servizio online, ritenendole troppo lunghe e complicate. A chiarire le idee arriva giusto questo provvedimento per l’ “individuazione delle modalità semplificate per l’informativa e l’acquisizione del consenso per l’uso dei cookie” (229/2014). Ampissimo il consenso riscosso dalle maggiori associazioni quali DMA Italia, Fedoweb, IAB Italia, UPA e Netcomm che hanno elaborato un prontuario su tutto quanto occorre sapere circa gli obblighi dei proprietari o amministratori di siti web.

Cosa dice il provvedimento? Per rispettare la normativa, è necessario che i siti che installano cookie (anche tramite strumenti terzi) mostrino un banner alla prima visita dell’utente, predispongano una cookie policy e permettano all’utente di fornire il consenso secondo le indicazioni fornite dalla legge. Prima che il consenso venga fornito, nessun cookie, ad eccezione dei cookie tecnici, può essere installato.

Sono cookie tecnici quelli strettamente necessari all’erogazione del servizio: rientrano tra questi anche i cookie statistici di terze parti (es. Google Analytics), ma solo qualora i dati vengano resi anonimi prima di essere salvati dal servizio terzo.

C’è però un’ulteriore complicazione: i titolari dei siti che impiegano cookie di profilazione sono assoggettati all’obbligo di notifica preventiva al Garante, ai sensi dell’art. 37, comma 1, lett. (d) del Codice Privacy. In fondo, è pur vero che siamo in Italia.

Cosa succederà a chi sbaglia? Ovviamente una multa salata:

  • da € 6.000 a € 36.0000 per omessa informativa o informativa non idonea;
  • da € 10.000 a € 120.0000 per installazione di cookie senza il consenso degli utenti;
  • da € 20.000 a € 120.0000 per omessa o incompleta notificazione al Garante (nel caso si utilizzino cookie di profilazione).

Un consiglio: in caso di dubbio, non rivolgetevi allo smanettone, ma ad un avvocato esperto in materia. Ma concentratevi anche sull’informativa estesa!

Perchè l’internet non salverà il mondo

Penso di essere una persona fortunata: amo il mio lavoro. Tutti dovrebbero avere questa opportunità, ma è un altro discorso. Mi piace entrare nelle aziende, parlare con le persone, ascoltare le loro necessità [di business] e proporre una soluzione.

Mi conoscono come uno con i piedi per terra: non prometto mai obiettivi che non sono certo saprò raggiungere (anzi, prometto di meno, sapendo di poter sfruttare poi il vantaggio di rimanere in una safety zone).
Le persone che incontro per lo più si dividono in due parti: quelle entusiaste delle (non più nuove) tecnologie digitali, e quelle pessimiste, disilluse. Alle prime, non è facile spiegare che le tecnologie digitali costituiscono uno strumento che offre enormi potenzialità. Ma l’internet non salverà mai il mondo, per il semplice fatto che l’internet siamo noi, la rete siamo noi. Dobbiamo superare il “vecchio” dualismo tra reale e digitale. Ogni tecnologia incorpora una cultura ed è a quella che reagiamo bene o male. Non è insomma la tecnologia il problema, ma come al solito siamo noi.

“Il tecno-determinismo, cioè l’idea che i cambiamenti sociali siano causati dall’innovazione tecnologica, è un approccio che se applicato ai media conduce a errori di lettura e di comprensione per un semplice motivo: è impossibile isolare una singola causa di cambiamento” e questo vale sia per quelli che vedono nel digitale la risposta a tutti i problemi, sia per quelli che lo considerano l’origine di tutti i mali. “Il punto è migliorarsi la vita, non certo dirsi tecno-pessimisti o al contrario tecno-entusiasti”. Internet è una piattaforma aperta, “Internet è quello che io riesco a farci e funziona per questo” ci suggerisce Mafe De Baggis, “chiunque pensi che si possa ‘alfabetizzare’ un’altra persona al digitale imponendogli la sua versione dei fatti non ha capito con che cosa ha a che fare”. Il punto non è insegnare alle persone come funzionano Facebook o Twitter, ma metterle in condizione di trovare nel digitale quello che può arricchire la loro vita. Una sorta di educazione al vivere digitale, un’educazione civica e del gusto alla vita in rete.
Liberiamoci del pregiudizio che il  digitale non faccia parte del nostro mondo, insomma che non sia reale. Inoltre, allontanandoci dalla realtà, ci farebbe del male, mortificherebbe i rapporti interpersonali e farebbe emergere il peggio di noi.

Ecco, ho fatto i miei compiti di Natale. Non mi resta che augurare di trascorrerlo nel modo che a ciascuno sembrerà più consono, ma rivolgendo uno sguardo al suo vero significato.

Nel 2014 impennata di vendite derivanti dal social commerce

Il volume delle vendite derivanti da social commerce sta crescendo velocemente: nel 2014 la  crescita è di tre volte rispetto al tasso delle vendite da e-commerce (62.5% rispetto al 17%)

Negli ultimi tempi si parla sempre di più di social commerce, soprattutto dopo che Facebook e Twitter hanno introdotto il tasto “buy”. Secondo una ricerca eseguita nel 2014 da BI Intelligence, i social media hanno oggi un forte impatto non solo a livello di vendite, ma anche, e soprattutto, sul processo di scelta (che influenza non solo l’ecommerce, ma anche le vendite nel retail).
Lo studio è stato condotto tenendo conto di varie metriche che permettono di valutare le performance dei diversi social, come ad esempio tassi di conversione, valore medio dell’ordine e redditi generati da condivisioni, like e tweet.

Si è abituati a pensare che i canali sui cui investire siano Facebook e Twitter, ma anche altri siti stanno avendo risultati significativi, soprattutto per quanto riguarda metriche specifiche, come il valore medio d’acquisto (o, per gli addetti ai lavori AOV: Average Order Value).
In particolare, stando a quanto pubblicato anche da Invesp la classifica è questa:

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Secondo Gianluca Diegoli, autore dell’interessantissimo libro Social Commerce:

I mutamenti che la Rete produrrà nel modo di creare, distribuire, promuovere, scambiare beni e servizi sconvolgeranno in modo radicale il sistema economico, in uno scenario che vedrà operatori di tutti i paesi vendere a livello internazionale. Il mutamento è economico e sociale ancora prima che tecnologico. (…)
Verrà messo in discussione il concetto di ecommerce freddo, self service: il compratore non è interessato solamente alla convenienza di prezzo e ma anche al lato sociale, culturale e di intrattenimento che l’ecommerce potrà svolgere.

Ora, tutti vogliono sapere su quali piattaforme focalizzare l’attenzione: ebbene, dai dati emerge come il social network che aiuta maggiormente i siti di e-commerce è Pinterest, il social basato sulle immagini. Secondo un’indagine di Piqora, una citazione su Pinterest, il cosiddetto “pin”, ha un valore medio di 0,78 dollari di vendite per un portale di commercio elettronico, dato in crescita del 25% rispetto al 2012 e da leggere in considerazione del fatto che ogni pin ha una media di condivisione di 10 volte. La piattaforma Shopify, soluzione che permette di realizzare siti di e-commerce, conferma: secondo i dati relativi alle prestazioni dei 25mila negozi online del gruppo, il traffico proveniente da Twitter è pari a quello che arriva da Pinterest, nonostante la popolarità maggiore del primo, e chi ha arriva dal social visuale ha il 10% di probabilità in più di fare un acquisto.

Ad oggi non possiamo considerare che l’e-commerce risulta ancora un fenomeno contenuto, rispetto al retail: nei paesi più “evoluti” arriva a valori intorno al 10%, stima media che ovviamente non tiene conto della decisamente diversa appetibilità che hanno i diversi settori merceologici. Se anche il social commerce arrivasse a coprire il 10% di questa nicchia, sarebbe già tanto.

Cos’è il klout score (e perchè dovrebbe interessarti)

Hai mai sentito parlare di klout score? Per gli appassionati di social media è un valore importante: è un punteggio (da 0 a 100) che esprime il livello della influenza sui social media, misurato da un algoritmo che valuta il modo in cui le persone interagiscono con i contenuti che posti.

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“Klout analizza milioni di singoli dati ogni giorno per comprendere chi sono i migliori creatori di contenuti, aiutarli a essere sempre migliori e aiutare i brand a entrare in contatto con queste persone”, spiega Joe Fernandez, cofondatore e CEO di Klout, azienda nata nel 2009.

Il punteggio “medio” sull’intera piattaforma è 41, il che vuol dire che da 50 in poi si tratta di un buon punteggio: non è facile arrivare sopra a 60, devi essere un buon produttore di contenuti in grado di interessare il tuo pubblico. Ovviamente, devi anche essere una persona che vive la rete, propensa a condividere le proprie esperienze.

Alla base del suo funzionamento, c’è un algoritmo, che analizza centinaia di azioni sui 15 social media che concorrono a creare il Klout: il retweet, il like e il reply su Twitter, Like, Share e Commenti su Facebook e così via. Quanto più i contenuti che produco sono interessanti, più il mio pubblico interagirà e quindi il mio klout salità. Inoltre, la piattaforma ti suggerisce quali contenuti condividere e chi seguire, con l’obiettivo di innalzare il klout.

Perchè dovremmo fare tutto questo? Quanto e perchè dovremmo credere al klout? Secondo un interessante articolo di wired, le aziende considerano questo parametro per valutare l’influenza in rete delle persone. Alle aziende piacciono gli influencer, perchè in un mondo digital sempre più sovraffollato di messaggi, se sono i nostri “amici” a parlare, dedicheremo loro molta più attenzione. I brand conoscono bene questo meccanismo, che ha rivoluzionato il modo di fare pubblicità. Oggi, oltre il 50% dei contenuti condivisi sui social media è creato da appena il 5% degli utenti, quindi se non parli con quel 5% sarà difficile entrare nel flusso, se non comprando direttamente costose ed inefficienti inserzioni pubblicitarie. Negli Stati Uniti ci sono aziende che concedono extra sconti se hai un klout score elevato: chi, meglio di un tuo amico, può parlare bene di un prodotto e un servizio da lui stesso provato?

Come utilizziamo lo smartphone

Un interessante post del Google Mobile Ads Blog dal titolo “The Mobile Movement: Understanding Smartphone Users” ci fornisce un interessante spaccato sull’utilizzo dello smartphone (studio di Google condotto da Ipsos OTX su 5.013 utenti statunitensi).

Lo smartphone è diventato una parte integrante della nostra vita quotidiana: lo utilizziamo come estensione del computer desktop, in multi-tasking o per il consumo di altri media, per esempio la TV. Qualche dato riassuntivo:

• l’81% delle persone usa lo smartphone per la navigazione su Internet, il 77% per la ricerca, il 68% per le app e il 48% per guardare video
• il 72% lo utilizza mentre consuma altri media, 1/3 mentre guarda la TV
• il 93% lo utilizza quando è a casa

Ricerche orientate all’azione: la ricerca via mobile viene usata per trovare una gran varietà di informazioni (oltre che per navigare in Internet).

• i motori di ricerca sono i siti più visitati (77% degli smartphone), seguiti da social network, esercizi commerciali e siti di condivisione video
• le ricerche effettuate da 9 smartphone su 10 portano ad una azione (acquisto, visita dell’attività commerciale, etc.)
• il 24% raccomanda un brand o un prodotto ad altre persone dopo averlo cercato su uno smartphone

Ricerca di informazioni locali: la ricerca di informazioni locali è effettuata da praticamente tutti gli utenti di smartphone, che agiscono poi in conseguenza delle informazioni che hanno trovato.

• il 95% degli utenti di smartphone ha cercato informazioni locali
• l’88% di questi utenti compie un’azione entro la giornata, mostrando che queste informazioni soddisfano bisogni immediati
• il 77% ha contattato una attività: il 61% tramite una telefonata e il 59% visitando fisicamente l’attività stessa

Guida all’acquisto: gli smartphone sono diventati uno strumento indispensabile per lo shopping, e sono utilizzati attraverso tutto il processo che va dalla ricerca alla decisione d’acquisto.

• il 79% degli utenti di smartphone usa il dispositivo come aiuto per l’acquisto: dalla comparazione dei prezzi, al trovare maggiori informazioni, fino al localizzare un rivenditore
• il 74% di chi acquista tramite uno smartphone effettua l’acquisto, anche online, all’interno del negozio, utilizzando il proprio dispositivo
• il 70% usa lo smartphone all’interno del negozio, mostrando percorsi di acquisto diversi (che spesso iniziano online per poi terminare offline, all’interno del negozio reale)

Raggiungimento dei consumatori mobile: l’esposizione cross-mediale influenza il comportamente degli utenti di smartphone; la maggioranza di questi presta attenzione agli annunci pubblicitari sul proprio dispositivo mobile, e interagisce con essi.

• il 71% effettua una ricerca col telefonino perché ha visto in precedenza un annuncio pubblicitario, pubblicato su un media tradizionale (68%), online (18%) o specificatamente via mobile (27%)
• l’82% presta attenzione agli annunci mobile, specialmente a quelli display e 1/3 a quelli inclusi in una ricerca effettuata via mobile
• la metà di chi vede un annuncio pubblicitario via mobile compie una azione; il 35% visita il sito e il 49% effettua un acquisto

Implicazioni: i risultati dello studio hanno forti implicazioni per le attività commerciali e per gli inserzionisti sul mobile. Google consiglia:

• di assicurarsi di essere presenti all’interno delle SERP via mobile in quanto i consumatori utilizzano regolarmente i loro telefoni prima per trovare e poi per agire in base alle informazioni trovate
• di utilizzare prodotti/servizi basati sulla localizzazione per facilitare gli utenti mobile nel raggiungere l’attività, perché è normale per un utente di smartphone cercare informazioni locali
• di elaborare un strategia multi-canale, perché l’utente utilizza il telefono all’interno del negozio, guarda la versione mobile del sito, utilizza le app per cercare e quindi decide l’acquisto
• infine, di implementare e integrare una strategia di marketing con il mobile advertising, che sfrutta il fatto che le persone utilizzano il loro smartphone mentre consumano altri media, e ne sono di conseguenza influenzati.