Le #invasionidigitali a Treviso – 25 Aprile 2013

Le #invasionidigitali sono una rete di eventi nazionali rivolti alla diffusione e valorizzazione del nostro patrimonio artistico-culturale attraverso l’utilizzo di internet e dei social media.

Ho deciso di aderire a questa interessantissima iniziativa insieme a Ferena Lenzi: blogger, instagramer, appassionati di fotografia e chiunque possieda un profilo sui social network (facebook, twitter, instangram, pinterest, …) siete tutti invitati presso la Chiesa di San Gregorio a Treviso il giorno 25 Aprile (giorno della liberazione) alle ore 17,30.

388609_314068228722009_41934829_n

Vi condurrò alla scoperta di questo capolavoro, che si trova a due passi dalla centralissima piazza dei Signori, poco conosciuto ai trevigiani perchè rimasto chiuso negli ultimi 80 anni. Della chiesa ci sono testimonianze già dall’epoca longobarda. Non ci sono prove, ma ipotesi che non escludono la possibilità che la chiesa abbia avuto origine tra il VIII secolo, quando Treviso era ancora un ducato longobardo, o nei successivi IX o X secolo, quando Treviso era una contea sotto il dominio dei Franchi o successivamente sotto gli imperatori tedeschi.

Durante l’invasione verrete accompagnati alla scoperta delle opere presenti nella chiesa, tra cui la Pala dell’altare di Jacopo Palma il Giovane (grande protagonista della pittura sacra veneziana tardomanierista), e opere di Domenico Fossati (Venezia, 1743-1785), Agostino Ridolfi (Belluno, 1646-1727), Giacomo Piazzetta (1640-1705, attribuzione dello storico Giorgio Fossaluzza), Ascanio Spineda (1588-1649), ed altri ancora. Puoi trovare molti altri approfondimenti all’interno del sito ufficiale San Gregorio Treviso.

Il progetto

Il progetto è stato ideato da Fabrizio Todisco in collaborazione con la Rete di travel blogger italiani di #iofacciorete, Officina turistica, Instagramers italia e l’Associazione nazionale piccoli musei.

L’obiettivo è quello di diffondere la cultura dell’utilizzo di internet e dei social media per la promozione e diffusione del nostro patrimonio culturale.

Come si svolgerà

L’appuntamento è per le 17,30 presso la chiesa. Chi parteciperà all’invasione sarà invitato a realizzare del contenuti (racconti, fotografie o video) e a postarli, utilizzando il tag #invasionidigitali, nei seguenti canali social: Facebook, Twitter, Instagram, Pinterest & Youtube. Tutti i contenuti saranno poi aggregati all’interno del portale Invasioni Digitali.
Al termine dell’evento, potremo andare insieme a prendere un’aperitivo in un locale nei dintorni.

Come partecipare

Eventbrite - Invasioni Digitali alla Chiesa di San Gregorio Magno

Le Dolomiti di Paolo Colombera

Ho iniziato a fotografare, e lo faccio tuttora, per fermare l’emozione che provavo nel trovarmi sulla cima di una montagna.
Ho constatato poi che all’alba o al tramonto le cime offrivano scenari unici. Anche l’isolamento e l’integrità del paesaggio hanno costituito aspetti irrinunciabili delle immagini che intendevo ritrarre.

paolo colombera

Questa dichiarazione del fotografo Paolo Colombera riassume il suo pensiero. Le immagini di Paolo ci accompagnano sui posti da lui scelti per immortalare stupendi paesaggi: foto spesso non facili, albe dopo una notte passata in un bivacco allestito come si può, anche in inverno.

Le dolomiti di Paolo sono quelle di una persona che ama stare tra le montagne, che ama riscoprire le cime meno frequentate, ma per questo non meno belle. Anzi le cime meno frequentate sono quelle in cui i segni del passaggio dell’uomo sono più timidi: sbiadite tracce di camoscio e al più qualche ometto.
Calpesta la cima e scatta le foto con il suo obiettivo 50mm, che ha “lo stesso angolo dell’occhio umano”, per fare in modo che le percepiamo alla portata della nostra esperienza: “ciò che vedi qui lo puoi raggiungere con i tuoi piedi e le tue forze, in quell’ora del giorno o della notte”.

Paolo è una persona genuinamente semplice, di quelle che lungo i sentieri ti accolgono con un rassenerante sorriso. Afferma che “fotografo il tramonto e l’alba così ho la scusa per spezzare il cammino in due giorni, e posso riposarmi perchè sennò non ce la farei”: la fotografia di Paolo non ostenta alcuna forma di alpinismo, a lui non interessano le persone che credono di andare ad esercitare i loro superpoteri in montagna. Ma, aggiungo io, è proprio il vero alpinismo che incarna questa forma si essenziale umiltà, nei confronti di sè stessi e della natura. Ho avuto in alcune occasioni la fortuna di incontrare alpinisti che hanno tracciato la storia dell’alpinismo, ed aver trovato di fronte a me persone tanto umili e semplici da sembrare misantropi a chi giudica in fretta.

Facciamoci rapire dal realismo fotografico di Paolo, che ci accompagna per mano negli incantevoli posti che visita, colti nel momento in cui la loro uce ci comunica emozioni dense. Andiamo noi stessi a controllare dal vivo i suoi scatti.

Parola di Paolo Colombera.

Il cellulare compie oggi 40 anni – l’inventore riceverà il Marconi Prize a Bologna

Martin Cooper, padre del telefono cellulare, nato a Chicago nel 1928, laurea all’’Illinois Institute of Technology, effettuò la prima chiamata in pubblico con un suo prototipo, realizzato per Motorola, il 3 aprile 1973, di fronte a giornalisti e passanti, in una via di New York. L’inventore, consapevole dell’enorme valore del gesto che stava per compiere, decise di fare quella prima chiamata davanti ai giornalisti componendo il numero del suo rivale alla AT&T (principale competitor di Motorola): «Ciao Joe, indovina? Sono sotto il tuo ufficio e ti sto chiamando con un cellulare…».

Il suo apparecchio si chiamava Dyna-Tac, pesava 1,3 Kg e aveva una batteria che durava 30 minuti, ma che impiegava 10 ore a ricaricarsi. Direi che, dopo 40 anni, le proporzioni si sono ampiamente ribaltate.

L’invenzione di Martin Cooper in realtà è avvenuta grazie alle invenzioni di due italiani: Antonio Meucci, inventore del telefono, e Guglielmo Marconi, inventore della radio. Quest’anno il prestigioso Marconi Prize, l’equivamente del premio nobel per le telecomunicazioni, verrà assegnato proprio a Martin Cooper dalla Marconi Society. Verrà consegnato il 1 Ottobre a Bologna durante la Marconi Institute for Creativity Conference 2013, la prima conferenza internazionale sulla scienza del pensiero creativo che accompagna la consegna del prestigioso riconoscimento.
La Marconi Society fu fondata a San Francisco nel 1974 da Gioia Marconi, figlia del grande inventore, per dare un riconoscimento a quegli innovatori che hanno messo la propria mente al servizio dell’umanità. Tra i precedenti vincitori, che una volta premiati diventano Marconi Fellows, ci sono tra gli altri Sergey Brin e Larry Page, Tim Berners-Lee, Leonard Kleinrock , Irwin Jacobs, David Payne, l’italiano Federico Faggin  e molti altri eroi della storia recente delle telecomunicazioni.

Gabriele Falciasecca, presidente della Fondazione Guglielmo Marconi e collaboratore della Marconi Society, dichiara

Apparati per comunicare vocalmente via radio furono già sviluppati da Guglielmo Marconi più di cento anni fa e nel settore militare ebbero grande importanza i terminali mobili della stessa Motorola durante la seconda guerra mondiale, come abbiamo visto in film sullo sbarco in Normandia. Ma Martin Cooper è riuscito ad abbinare la realizzazione di un terminale portatile, sebbene un po’ pesante, con la capacità di entrare nella ordinaria rete fissa di telefonia, aprendo così la strada a tutti gli sviluppi successivi. Va detto che dopo questo momento pionieristico anche l’Europa fece la sua parte: la realizzazione del primo sistema paneuropeo digitale, il GSM, è stata un’altra pietra miliare nello sviluppo di queste tecnologie sulle quali oggi è basata gran parte della nostra comunicazione in voce e di dati

In vista della consegna del Marconi Prize verrà anche lanciato un contest tra i giovani creativi per l’ideazione della migliore app (iOS e Android) per far conoscere l’opera di Marconi. Non uno strumento da museo, ma un gioco o un’utility che sappia coinvolgere davvero. Le modalità del concorso verranno presto definite nel dettaglio e rese pubbliche, ma già da ora si sa che gli esperti della Fondazione Marconi aiuteranno a realizzare tre app e una di queste verrà premiata alla consegna del Marconi Prize.

 

Auguri di Buona Pasqua: come farli?

Devo ammetterlo: sono allergico agli auguri di servizio, come sono allergico ai sorrisi stampati in faccia. Quelli aziendali poi, corrono il serio rischio di essere passati per spot: gratuiti e inopportuni, perchè il messaggio lanciato sfrutta importanti festività religiose, che non meritano affatto di essere commercializzate.

Ricordo come nei primi anni 2000, quando gestivo popolari sistemi di email, gli utenti ancora rispondevano ai messaggi automatici di auguri di compleanno: non so se ancora qualcuno lo fa, spero di no. Poi il web si è evoluto, i social network sono entrati, volenti o nolenti, a far parte della vita di tutti noi, e il modo di comunicare ha fatto passi da gigante.

La scorsa settimana ho partecipato all’evento #Sharing organizzato dalla Mediolanum Corporate University, dove il direttore marketing Oscar di Montigny ribadiva come i social network agiscono come amplificatore di relazioni: le aziende non possono avere più segreti, è arrivata una ventata di trasparenza ed ora devono concentrarsi su come prendersi cura e risolvere i problemi delle persone, piuttosto che distribuire il loro prodotto per il determinato target in cui sei stato categorizzato.

Il mio stile è tagliente, fa parte del mio modo e ricordo come già venti o trenta anni fa una ragazza che aveva interessi – non corrisposti – su di me mi disse “parli poco tu, ma quando parli lanci addosso coltelli affilati”. Scommetto che non avrebbe pensato che avrei portato addosso quella massima così a lungo. Ma mi sale l’orticaria a vedere ancora messaggi del tipo

Gentile Bruno, ***** ***** e il suo staff le augura Buona Pasqua.

Le ricodiamo che i nostri uffici riapriranno Martedì 02 Aprile
***** S.R.L.

E, se non bastasse il triste messaggio, vedo che la mail è stata inviata con i destinatari in copia conoscenza nascosta CCN. La cosa desolante è che neppure aziende che propongono servizi di web marketing sono estranee a pratiche di questo tipo. Mi soffermo a pensare come il mondo sia in rapida evoluzione, ma c’è ancora chi è ancorato a schemi ormai superati – per non dire che non si è evoluto  –  oppure questi professionisti mirano a colpire un preciso target: ad ognuno spetta il proprio cliente.

Colgo allora l’occasione di ringraziare chi lavora con impegno e professionalità, condividendo il proprio know how, confrontandosi ed interagendo all’interno di blog, social network, forum, spazi di quella comunicazione fluida che amiamo.

Apologia di un non blog

Ti sarai chiesto per quale diavolo di motivo questo blog è praticamente vuoto: la verità è che si tratta di un progetto in costruzione.
Ho deciso di metterlo on-line anche se non terminato, perchè posso portare avanti il progetto solo dopo aver lavorato per i miei clienti, che hanno la precedenza. Lo ammetto: non sono in grado di sapere quando sarà termninato. Se, nel frattempo, volessi sapere qualcosa in più di me, puoi inviarmi un’email all’indirizzo info@brunobarbieri.eu.

In crescita del +8,4% internet in Italia

Secondo i risultati della Ricerca di Audiweb sulla diffusione dell’online in Italia, nel 2012 internet è stata utilizzata dal 79,6% della popolazione italiana tra gli 11 e i 74 anni, segnando un +8,4% rispetto alla media del 2011. Inoltre 38,4 milioni di persone dichiarano di accedere a internet da qualsiasi luogo e strumento. Cresce anche l’accesso ad internet da cellulare (16,8 milioni di Italiani) e da tablet (2,7 milioni di italiani).

Osteria senza oste

L’osteria senz’oste si trova a Santo Stefano di Valdobbiadene. È una casa colonica di tre piani in pietra e mattoni, con stalla e fienile, costruita fra le viti a fine ’800. Dentro ci sono il camino, il secchiaio di marmo, i salami appesi nella moscaróla che li difende dagli insetti, il filo elettrico intrecciato, gli interruttori di porcellana, le carte da gioco trevisane. La porta è sempre aperta e chi vi entra trova sempre vino e salumi. Mangi, bevi, ti fai il conto da solo e lasci i soldi in una cassettina di legno a forma di casa, munita di un piccolo lucchetto, sul cui tetto il falegname ha inciso questa sentenza: «L’onestà lascia il segno». Un sano ed esemplare esempio di economia del dono, un simbolo di accoglienza, del rispetto e della responsabilità che ha contribuito a raccontare non solo Valdobbiadene, ma tutto il territorio del trevigiano. I suoi visistatori arrivano anche dall’estero: Germania, Francia, ma anche Stati Uniti, Giappone e Namibia.

Cesare de Stefani, il padrone di casa, ci racconta com’è nata:

«Era il 2005. Capitava spesso che i miei amici, passando di lì, mi rimproverassero il fatto che non c’ero e che li lasciavo a bocca asciutta. Così un giorno ho deciso di mettere sul tavolo della cucina, la cui porta era ed è sempre aperta, tre bottiglie e sei bicchieri. Se erano di più avrebbero dovuto bere a turno. Un’emozione di cui nel tempo si sono impossessati non solo i miei amici ma anche tanta altra gente che passava di lì. Un fenomeno inaspettato»

Come arrivare
Da Valdobbiadene, provincia di Treviso, si prende la strada per Santo Stefano. A un certo punto, sulla destra, un’edicola votiva e la freccia della cantina Col Vetoraz. Si prende la strada sterrata. S’infila l’auto tra i filari di viti. Poi, a piedi, su per una brevissima capezzagna preceduta da una freccia segnaletica con un punto interrogativo.

«Perché arrivano qui dopo aver girato a vuoto due-tre ore domandandosi indove casso che l’è», ride il padrone di casa. Il cartello dice: «Proprietà privata. Libero accesso consentito agli amici e alle persone munite di buon senso, rispetto e responsabilità»

Cesare De Stefani
È i titolare, insieme al fratello, di una rinomata macelleria. Figlio d’arte in quanto il padre Giuseppe e la madre Bernardetta, macellai, misero Cesare a bottega alla fine della terza media perché mostrava poca voglia di studiare. Racconta «bocciato due volte, lo Stato avrebbe dovuto farmi pagare la tassa d’occupazione del suolo pubblico, considerato che i banchi di scuola sono di tutti», non si assolve. Ma l’ingegno non gli manca, visto che è anche il proprietario della cantina Sancòl, che imbottiglia Prosecco e Cartizze.

Cesare De Stefani si racconta in questa bellissima intervista di Stefano Lorenzetti, apparsa sul Giornale il 21 Settembre 2008.

Come le è venuta l’idea?
«Gli amici passavano per bere qualcosa in compagnia, ma raramente mi trovavano. Intimoriti, non osavano neppure stappare una bottiglia alla mia salute. Per sollevarli dall’imbarazzo ho messo la cassettina delle offerte».

E il nome del locale?
«Tutte le volte che dovevo mandare il mio braccio destro Aribert Ellemann a lavorare questi vitigni non riuscivo a farmi capire. E allora gli dicevo: Ari, sai la vigna dell’osteria senza oste? Capiva subito. È diventata un’insegna».

Il terreno è suo?
«Sì. Non è molto esteso, 7.000 metri quadrati, però sono uno dei 145 fortunatissimi proprietari che si dividono i soli 104 ettari del Cartizze».

Vale oro.
«Circa 2 milioni di euro a ettaro. Ma vale oro soprattutto perché milioni di anni fa qui arrivava l’Adriatico e quindi è pregno di conchiglie fossili e di sali minerali che conferiscono alle uve un profumo unico».

La ricevuta fiscale chi la fa?
«Eh, ma se l’oste non c’è, chi può farla? L’avventore mette nella cassa comune l’esatto importo che ho speso io per rifornire la dispensa, senza alcun ricarico. Insomma, non c’è guadagno».

Semmai perdita.
«Di solito pagano tutti. Ma può capitare che qualcuno, magari dopo aver bevuto due bicchieri di troppo, si dimentichi d’aver stappato una bottiglia e sbagli a farsi il conto. Pazienza. E poi c’è sempre il problema del resto o delle valute straniere. Ho trovato nella cassettina dollari statunitensi, real brasiliani, persino 5 bolivares della República bolivariana de Venezuela».

Nessuno che faccia il furbo.
«Qualcuno c’è. Ma sono eccezioni. Anzi, portano pure omaggi all’oste che non c’è: un veronese, alla terza visita, mi ha lasciato in dono una bottiglia di Recioto. Ad andare a ruba sono i dépliant turistici che mi procuro nelle Apt e nelle pro loco per far conoscere il mio meraviglioso Veneto, l’unica repubblica, nella storia dell’umanità, durata 1.100 anni».

Si meriterebbe il posto di Michela Vittoria Brambilla, sottosegretaria al Turismo.
«Ma non ho la sua testa. E neanche le sue gambe. Però la invito volentieri per una scampagnata».

I suoi che dicono dell’iniziativa?
«Barbara, mia moglie, non è che sia troppo contenta. Se la sera passo di qui per fare quattro ciacole, non torno più a casa».

Un’osteria senza l’oste e con le porte sempre aperte. Qualcuno, visto il suo lavoro, le avrà dato del salame.
«Sì, credo di sì. Qualcuno che pensa che io sia un illuso c’è senz’altro. Ma a me piace così. Spesso vengo all’osteria senza farmi riconoscere. È una gioia trovarvi famiglie, nonni con i nipotini, padri cinquantenni portati dai figli ventenni e viceversa. Un pomeriggio d’inverno c’erano due morosi che giocavano a briscola davanti al camino. Che emozione! Di questi tempi sono scene che riscaldano il cuore, sa? In Veneto non ci sono più osterie, solo sushi bar, paninoteche e kebab».

Mai avuto problemi di sicurezza?
«Ho conosciuto il titolare della Bds di Pieve di Soligo, che produce porte blindate. Suo figlio gli aveva parlato di questo posto, spiegandogli che c’era venuto più volte, e la risposta del padre era stata sempre la stessa: “Bisogna che te bevi de manco”. Pensava che se lo sognasse durante le sbornie. Alla fine è venuto di persona a controllare. Non credeva ai propri occhi. “Mentre scostavo la porta semichiusa, ho temuto che da dentro qualcuno mi sparasse”, mi ha confessato. “Ma come? Io mi addormento tutte le notti pensando a qualche nuovo sistema per difendere le case e lei lascia tutto spalancato? Non è possibile!”».

Non chiude proprio mai?
«Il suggerimento è di passare dalle 8 di mattina a mezzanotte, non oltre. Ma se l’oste non c’è, come fa a cacciare gli ospiti o a chiudere? Una sera d’estate ho trovato due coppiette che prendevano il fresco sul terrazzo a tarda ora. Ho chiesto da dove venissero. “Siamo albanesi”, mi hanno risposto con un tono di voce che tradiva imbarazzo, come se io potessi pensare che fossero ladri. Hanno fatto vergognare me».

Adesso non esageri. Questo resta pur sempre il Veneto assediato dalla criminalità, dove non basta certo la catenella alla porta.
«È importante trasmettere un messaggio di fiducia. Io penso che servano luoghi dove la gente possa dimostrare d’essere onesta. Una volta ho trovato una brigata di ventenni. Tatuaggi, borchie, zazzera. Le classiche facce poco raccomandabili. Mi sono divertito a sfruculiarli. “È la quinta volta che veniamo qui, speriamo che duri”, mi hanno detto. Dipende solo da voi, gli ho risposto, e mi sono presentato: vi nomino guardiani dell’osteria e vi autorizzo a riprendere a nome mio chi si comporta male. Estasiati. È bastato investirli di una responsabilità per trasformarli in persone diverse».

Pensa che questo esperimento sia esportabile?
«Sì. Nei registri delle dediche trovo scritto: “Una cosa simile può esistere solo qui”. Non è vero. Vorrei aprire un’osteria senza oste a Palermo o a Napoli. Magari, quando sarò in pensione, lo farò. Perché sono convinto che anche al Sud la gente vorrebbe dimostrare la sua onestà, ma non ha un luogo dove poterlo fare. Non è una sfida, badi bene. È che nessuno mi toglie dalla testa che tutto il mondo, alla fin fine, sia paese».

A proposito di onestà: com’è che in giro per ristoranti, enoteche, bar e supermercati sembra esserci più Cartizze che Prosecco?
«Impossibile. Il vitigno è lo stesso, ma da circa 4.000 ettari di Prosecco si ricavano 57 milioni di bottiglie l’anno, che credo diventino il triplo se alla Doc aggiungiamo l’Igt, indicazione geografica tipica. Mentre dai 104 ettari di Cartizze, che è un Prosecco superiore, si ottengono appena 1,1 milioni di bottiglie. Semmai bisognerebbe scovare coloro che vendono come Prosecco anche l’acqua di rubinetto».

Quello dei veneti imbriagóni è uno stereotipo o una realtà, a suo parere?
«Uno stereotipo. Sono anni che non vedo uno sbronzo per strada».

Eppure la Sicilia, prima regione vitivinicola d’Italia, non ha la brutta nomea del Veneto.
«Solo perché i siciliani parlano meno».

Tra salumi e vino, se avanza l’Islam per lei la vedo dura.
«Emigrerò. O mi butterò sul turismo».

Che doti cerca nei collaboratori?
«Quelle che apprezzo in Bernardo Caprotti, il mio modello: correttezza, professionalità, trasparenza. Vidi il fondatore dell’Esselunga una sola volta, 26 anni fa. Mi portò da lui l’agente di una cantina: cercavano una soppressa da abbinare a una vendita promozionale di Prosecco. “Se per caso ti ordineranno la merce”, mi disse il rappresentante, “poi non sognarti di spedire a casa di qualche dirigente dell’Esselunga cestini di salumi o cartoni di Cartizze in segno di riconoscenza: si verrebbe a sapere e ti straccerebbero il contratto all’istante”. Una lezione che non ho mai dimenticato».

Come vede l’economia?
«Male. Joaquín Almunia, il commissario europeo per gli affari monetari, dice che in Italia gli stipendi sono troppo alti. Dove vive, sulla Luna? Qui è troppo alto il costo del lavoro. Non è possibile che, per ogni 100 euro messi in busta paga a un mio dipendente, debba versarne altri 100 di tasse».

Nota contrazioni delle vendite?
«Certamente. Soprattutto noto più oculatezza nelle scelte. Vanno molto gli stinchi di maiale, che sono grossi e costano poco. Per fortuna con l’immigrazione dall’Est sono ripresi i consumi di parti che gli italiani disdegnano: fegato, cuore, piedino, codino».

Mi dicono che molti allevatori tengono i maiali al buio e li nutrono versando litri di clintòn nel pastone.
«Mai saputo. Nella mia azienda laviamo due volte le budella con aceto di Prosecco prima di insaccare: è antisettico e dà sapore. Il vino si mette nell’impasto di maiale e pepe, perché facilita l’acidificazione, i microorganismi riescono ad attaccare meglio i residui zuccherini delle carni. Ogni 100 chili di macinato, noi aggiungiamo un litro di brûlé fatto con Cartizze, cannella e chiodi di garofano, ovviamente dopo averlo raffreddato».

Il suo colesterolo a quanto sta?
«E chi lo sa?».

Secondo lei quante volte a settimana si possono mangiare i salumi?
«Che discorsi: tutti i giorni. È quello che fanno gli italiani, senza saperlo. Faccia caso: il prosciutto nel tramezzino al bar, il salamino piccante sulla pizza… Tant’è vero che dai 25 chili di salumi pro capite che consumavamo nel 1980 oggi siamo saliti a 35, mentre la carne bovina nello stesso periodo è scesa da 28 a 24».

C’è da fidarsi dei salumi industriali già affettati e venduti in buste sottovuoto?
«Sotto il profilo igienico sì. Basta leggere con attenzione l’etichetta: sale, pepe, spezie, nitrati. Tutto il resto è in più. Se ci trova nitriti, destrosio, saccarosio, fruttosio, significa che si tratta di carni congelate e che il produttore vuol ridurre il calo di peso o simulare una stagionatura inadeguata».

Che cosa pensa dei vegetariani?
«Li vedo sempre tristi».