Lo scenario contemporaneo entro cui si sta muovendo colui il quale fino a poco tempo fa veniva etichettato consumatore, è oggi per molti caratterizzato da una buona dose di incomprensibilità.
All’interno dei mondi del marketing e della comunicazione, che hanno sempre viaggiato paralleli, c’è l’impressione che tutto sia stato già provato. Il consumatore è sempre meno prevedibile, è ormai diventato infedele e la comunicazione di marca è di nuovo costretta ad un cambio di paradigma che si basa sull’individuazione di nuove narrazioni che rispondano a veri criteri di autenticità per i diversi profili di pubblico. A partire dagli anni novanta, il consumatore è diventato sempre più complesso e meno lineare nei suoi percorsi di consumo: è diventato più sensibile alle novità di mercato, più esplorativo e quindi infedele, più individualista e con un maggiore bisogno di rinnovarsi. Assistiamo alla crisi della segmentazione del consumatore, e perciò non rimane altra strada che considerarlo un individuo sempre più informato e che sa di poter disporre nei confronti dei marchi di un’influenza che in passato non aveva. Lo stesso individuo è ora in grado di mettere seriamente in crisi l’intero mondo della pubblicità on line: assistiamo ad una crescita esponenziale dell’utilizzo degli “ad block“, ovvero strumento che bloccano ogni forma di pubblicità.
Ma allora come possono fare le marche a raccontare il loro prodotto? Il punto della questione, che mi sta davvero a cuore, è che nel campo del marketing e della comunicazione produciamo quotidianamente strategie che mettono in campo esperienze superficiali, che mettono al centro un consumatore prototipico che è alla ricerca di sensazioni ludiche, di entusiasmo, di cose stucchevoli. Inseguiamo cioè l’inganno, e la cosa più sconvolgente è che il consumatore questo lo sa, ma cade consapevolmente nella trappola.
Trovo veramente illuminante a questo proposito le parole di Stefano Gnasso, (in Existential Marketing, scritto con Paolo Iabichino) quando sostiene che il marketing debba restituire esperienze che siano pregne di senso dal punto di vista collettivo: “il prodotto o servizio deve sapere rispondere a una richiesta di senso che orienti e giustifichi l’agire quotidiano, sradicandolo dalla concezione individuale per inserirlo e radicarlo all’interno di un processo sociale che a sua volta sia in grado di consolidare un’identità frammentaria e contraddittoria”.
Secondo lui bisogna, in parole povere – ma è una cosa spaventosa -, pensare in maniera liminale, ossia creando dei progetti che siano “in grado di trasformare gli uomini e le comunità”.
Jonathan Gottschall è arrivato a dimostrare che l’evoluzione della specie umana è strettamente correlata alla sua innata capacità di raccontare e ascoltare storie: l’uomo è un animale narrativo e adesso ha bisogno di nuove morali. Ecco perchè sarà necessario ripartire da ciò che interessa veramente alle persone.
Il grande regista Oliver Stone, intervenuto allo Iab Form di Milano, ha iniziato il suo discorso con una frase bellisisma, che mi è subito entrata nel cuore.
“Devi avere un piano da seguire e devi credere in ciò che fai per fare un buon prodotto”. Per ottenere il consenso, oggi vitale per ottenere visibilità, è necessario individuare contenuti che, trasformati in narrazione, sopperiscano ad un bisogno di comunità: bisogna pensare in termini di vantaggio proposto alle persone. C’è ora un grande bisogno di umanizzare la comunicazione, parlando delle persone e delle loro storie, che non saranno necessariamente stucchevoli. Rafforzeremo l’idea che ciò che ci fa vivere bene non sono le vittorie, ma l’impegno e la determinazione a fare bene: avremo guadagnato anche la capacità ad imparare dagli errori, e saremo di ispirazione per chi si sente imperfetto, per chi ha paura di non riuscire a fare tutto, per chi è umano e cerca un altro umano.