Ora le persone chiedono la verità, ed è la fine per la pubblicità

Nel marketing, guardando all’evoluzione storica, sono diventati di moda diversi termini, coniati di volta in volta per inventare qualcosa di nuovo che potesse catturare l’attenzione del consumatore: e io ho vissuto in pieno i tempi in cui gli spot passavano a ritmo martellante nelle tv sempre accese, e la gente usciva di casa a comprare. Il marketing emozionale ha lasciato posto al marketing esperienziale, che pareva sussurrare ad un orecchio: “prova questo prodotto fantastico, ti farò sentire veramente importante …”. In tempi più recenti, siamo passati al viral e poi al guerrilla marketing, per poi approdare al native e al misterioso programmatic advertising…
Ora ci troviamo in un momento che secondo me è bellissimo, e poetico: dopo che tutto è stato provato, dopo che la crisi ha sanzionato i mercati, ci si è convinti che non serve provare di tutto per convincere le persone ad acquistare, se sappiamo spiegare bene cosa facciamo e perchè lo facciamo, se siamo in grado di farci scegliere grazie ai perchè del nostro stare sul mercato.
Testimoniare la nostra presenza, piuttosto che affannarsi a trovare giustificazioni. Non so se a qualcuno questa affermazione sembrerà familiare: è niente di meno che una citazione del Vangelo San Luca 21, 5-19:

Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.

Si dice che oggi ci sia una grande voglia di verità in giro. Alle aziende, come alle persone viene chiesto di essere autentiche, di essere testimoni di coerenza. Lasciamo da parte per un momento il perchè si è arrivati a questo, di come il web prima e i social media poi abbiano innescato questo meccanismo di non ritorno. Gustiamoci questo momento. Il termine ora in voga è storytelling: uno dei pochi casi in cui non possiamo usare l’italiano che suonerebbe come “raccontare una storia”. Lo storytelling è infatti comunicare attraverso un racconto, che non è una bella storia: il consumatore non si farà più incantare da alcuna furbizia narrativa, troppo in overloading e impegnato in multitasking su più device, con buona pace per chi prova a costruirgli intorno un customer journey.
Non è un caso che anche la multinazionale Coca Cola abbia in tempi recenti rinunciato alla narrativa della felicità (“Open Happiness”, era lo slogan usato ovunque) per abbracciare un meno prosaico “Taste the feeling” e salutare così il ritorno all’essenzialità del prodotto. Oggi i social network hanno schiuso le porte dei palazzi di vetro e la relazione non può più essere mediata dalla retorica dell’advertising. C’è un bisogno di autenticità. Le persone chiedono alle aziende un solido e inattaccabile bagaglio valoriale. Ed è per questo che persone autentiche come Mario Cucinelli hanno così tanto successo: ora devi essere testimone di solidi valori, solo così le aziende possono essere scelte per essere parte della nostra identità. Certo, sarà necessario usare un bagaglio valoriale condivisibile: nei giorno scorsi, per esempio, ho pensato alla vicenda sull’olio di palma. Anche dopo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sancito la sua pericolosità in quanto cancerogeno, la Ferrero ha avviato una contro campagna milionaria per difendere il prodotto, e sui social continuano a prevalere gli entusiasti, non disposti a rivedere le loro abitudini alimentari. In questo caso, l’amore per il brand supera ogni considerazione razionale (ma è un caso particolare). Le persone seguono la pancia prima della testa, mettendo in gioco ciò che riconoscono. A questo si deve, almeno in parte, il successo di Trump, che conosce molto bene come “incantare” la folla, da bravo conduttore televisivo. Ma questo tipo di approccio alla comunicazione funziona ancora per chi non ha gli strumenti per leggere il suo modo, per capire che agisce da affabulatore. Per le categorie di persone più vulnerabili, è ancora l’Organizzazione Mondiale per la Sanità a mobilitarsi, dichiarando che “gli Stati devono intervenire perché hanno il dovere di proteggere i bambini dal marketing digitale di prodotti squilibrati nutrizionalmente e dannosi per la salute (troppo ricchi, appunto, di sale, zucchero, grassi)”. Non è solo una raccomandazione, ma una precisa richiesta di regole che impongano alle piattaforme private di rimuovere la pubblicità degli alimenti considerati a rischio della salute dei più piccoli.
Per fortuna, la fetta di persone che conoscono i meccanismi di inganno della pubblicità è terribilmente in crescita, al punto tale che l’inganno è diventato poco conveniente. Una parte sostanziosa degli introiti pubblicitari on line deriva ancora dalla diffusione di notizie false: ma sia Google che Facebook stanno prendendo delle serie contromisure per abbattere il problema. Non con la censura, attività che è da sempre estranea allo stesso concetto di web, ma bloccando la pubblicità (e quindi gli introiti pubblicitari) alle notizie false, costruite con l’unico scopo di generare click. La notizia arriva proprio nel momento in cui si discute di come il recente risultato elettorale negli Stati Uniti possa essere stato condizionato dalle notizie false. Kaveh Waddell scrive per Internazionale che “Molto di quello che si trova su Facebook è falso. La cosa non dovrebbe sorprendere perché molto di quello che si trova su internet è falso, e Facebook è un posto in cui le persone condividono quello che vedono, leggono o pensano.”. Ma questa volta Google e Facebook sono seriamente intenzionati a venire incontro al bisogno di verità delle persone, e sono al lavoro per trovare contromisure efficaci. Solo Facebook, che è una “nazione” fatta da 1,8 miliardi di utenti nel mondo (150 milioni nei soli Stati Uniti) fornisce la «dieta» quotidiana di informazioni politiche a un americano adulto su due. Mi piace pensare che i due colossi del web non stiano facendo tutto questo con l’unico scopo di fare del bene delle persone – lo vorrei pensare, questo sì – ma perchè sanno che questo fenomeno produrrebbe presto uno screditamento di questi media, al punto tale da far migrare l’attenzione delle persone verso altri luoghi in cui regna la verità. Gerard Bronner afferma che “tendiamo a cercare non le informazioni che migliorano la nostra conoscenza, ma quelle che confermano le convinzioni che abbiamo già. Crediamo perchè abbiamo voglia di credere”. È in gioco il concetto stesso di democrazia: come andrà il mondo è nelle mani degli indecisi, quelli che percepiscono la complessità del mondo e lo mettono in discussione con spirito critico. Per questo dobbiamo essere fermamente convinti che la verità salverà il mondo.

Ringrazio Paolo Iabichino, che considero un mio guru della comunicazione, per essere stato ispirazione per queste parole.

Fare impresa per creare valori

«Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini». Lapidaria ma incontestabile, questa asserzione del filosofo francese Paul Ricoeur delinea uno dei rischi maggiori della società contemporanea. Da un lato, infatti, mai come oggi abbiamo a disposizione un paniere sterminato di informazioni e di dati attraverso la comunicazione digitale. Mai come ora la scienza, accompagnata dalla tecnologia, ci offre una strumentazione efficace nella ricerca fisica, medica, industriale. Mai come in questo tempo la finanza stende una rete, spesso impalpabile, avvolgendo e talora strangolando il nostro globo. Mai come ai nostri giorni le distanze s’accorciano e persino svaniscono, permettendo un rimescolamento di etnie e culture.

D’altro lato, però, a questa indubbia e pur importante “bulimia” operativa corrisponde un’anoressia di valori, di interiorità, di significato, di etica. La massa delle risposte strumentali non riesce a evadere le domande esistenziali che, purtroppo, si affievoliscono nelle coscienze fino a estinguersi. Un altro filosofo, il danese Soeren Kierkegaard, già nell’Ottocento rappresentava simbolicamente questa situazione: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani». L’apparente ottimismo versato a piene mani dalla scienza e dalla comunicazione di massa non riesce, comunque, a nascondere il groviglio di contraddizioni in cui ci dibattiamo. Il sudario di sangue delle guerre, la disperazione degli esodi di massa, la devastazione ambientale, il colossale divario tra ricchi e poveri, l’anelito dei popoli affamati, le ingiustizie sociali sempre più marcate, l’impennata della disoccupazione, gli squilibri culturali, i fondamentalismi religiosi continuano, infatti, ad artigliare le coscienze e le esistenze personali e comunitarie, distratte e superficiali, e riescono a interpellare tutta la piramide della società, dal vertice politico ed economico fino alla base popolare. Per questo l’impresa italiana ha voluto consacrare una giornata di studio e di testimonianza nel tentativo di risvegliare e rinvigorire l’impegno comune ad opporsi a questa turbolenza che agita il nostro pianeta sempre più globalizzato eppure altrettanto frazionato. Gli imperativi per edificare un ethos comune che affronti questo orizzonte complesso e complicato sono quelli di sempre ma devono essere declinati con nuovi accenti, liberandoli dagli stereotipi vagamente moraleggianti: la giustizia, la libertà, la dignità della persona, la solidarietà, la conoscenza e l’istruzione, la responsabilità e i diritti individuali e sociali, il lavoro, la fede autentica e la morale. Queste e altre parole di vita sono state annodate sotto un denominatore comune che ha dato il titolo al convegno, il fare insieme.

Ora, questo verbo, che in quasi tutte le civiltà è il più generico per classificare ogni tipologia di azione, nella nostra lingua è basato su una radice indoeuropea che significa “mettere, fondare, posare” e rimanda quindi a una costruzione. Il verbo “fare” è, poi, contenuto in molti altri termini italiani, tra i quali brillano l’“affetto” e il “difetto”. Sono un po’ i due volti estremi del “fare”, quello luminoso e appassionato della dedizione e quello del limite e dell’imperfezione: le mani che operano possono, infatti, stringersi e procedere “insieme”, ma possono anche rinchiudersi a pugni. Ecco perché è necessario coniugare il verbo “fare” con l’avverbio “insieme” che ha etimologicamente alla base l’aggettivo “simile”. È, quindi, la riscoperta della comune umanità e fraternità, l’essere tutti “figli di Adamo”, prima che essere segnati da altri connotati etnici, storici, culturali e sociali.
Dobbiamo ribadire, come suggeriva un altro filosofo francese, Emmanuel Lévinas, l’importanza del volto, dello sguardo reciproco, del dialogo. Visto da lontano un altro può sembrarci una bestia o un predatore; di fronte rivela, invece, quella costante umanità che tutti ci unisce per cui, come dice un proverbio orientale, il boia non guarda mai negli occhi la sua vittima. Ora, nel “fare”, un aspetto capitale è certamente quello del lavoro. Lo afferma in modo radicale la stessa Bibbia, che è pur sempre “il grande codice” della nostra civiltà occidentale: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2,15).

Certo, come diceva Pavese, «lavorare stanca»: non per nulla il latino labor, da cui deriva il nostro “lavoro”, significa “fatica” e “dolore”, e in francese e spagnolo il “lavoro” è travail e trabajo. Tuttavia l’uomo che è inerte o paralizzato o disoccupato sente una ferita nell’anima. Per questo “fare insieme” è costruire un mondo diverso nella giustizia e nella fraternità ma è anche creare concretamente le condizioni perché tutti possano operare con le loro mani e la mente, “coltivare e custodire” il mondo e sviluppare la loro stessa esistenza personale e sociale. Per questo affidiamo l’ultima considerazione a Primo Levi, uno scrittore che al lavoro operaio ha dedicato un romanzo dal titolo emblematico, La chiave a stella (1978), e che così ci esorta: «Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione della felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono».

Articolo di Gianfranco Ravasi, in vista del seminario di Confindustria «Fare insieme» in programma per venerdì 26 febbraio 2016.

Internet ci rende peggiori?

In un recente articolo apparso sul New York Times, Farhad Manjoo scrive che “I toni su Internet sono quasi sempre sopra le righe, ma quest’anno lo sono stati più del solito: estremisti di ogni tipo riescono a spiccare nel rumore di fondo e ottenere più visibilità a scapito di chi ha toni più pacati e ragionevoli, rendendo di fatto Internet un posto inospitale”. La tesi, ripresa da Il Post, è che parte della sovreccitazione online sia dovuta ai tempi in cui viviamo e alle notizie che riceviamo, ormai quotidianamente, su attacchi terroristici, uccisioni di massa, sparatorie, razzismo, proteste e violenze di ogni tipo da tutto il mondo. Le informazioni su queste cose vengono condivise rapidamente sui social network e commentate ancora più velocemente, spesso senza pensarci più di tanto o avere un’idea precisa di quali siano le cause e le circostanze in cui si sono verificati determinati fatti. Manjoo scrive che i social network contribuiscono ad alimentare un circolo vizioso di azione e reazione: “La reazione di Internet a una determinata situazione diventa parte e seguito della storia, così da intrappolare i media in una escalation, in un giro infinito di 140 caratteri, di reazioni d’impulso e istantanee”.
Secondo Carr Nicholas, autore del libro “Internet ci rende stupidi?“, la rete rende più rapido il lavoro e più stimolante il tempo libero ma, mentre usiamo a piene mani i suoi vantaggi, stiamo sacrificando la nostra capacità di pensare in modo approfondito. Abituati a scorrere freneticamente dati tratti dalle fonti più disparate, siamo diventati tutti più superficiali.
Eppure John Perry Barlow, uno dei più famosi attivisti per la libertà della rete, scrisse nel 1996 che “con maggiori capacità di comunicazione e la possibilità di raggiungere direttamente gli individui si genera un tipo di comunicazione migliore, più gentile e amichevole”.
Scrivevo in un post esattamemte un anno fa che “l’internet non salverà mai il mondo, per il semplice fatto che l’internet siamo noi, la rete siamo noi. Dobbiamo superare il “vecchio” dualismo tra reale e digitale. Ogni tecnologia incorpora una cultura ed è a quella che reagiamo bene o male. Non è insomma la tecnologia il problema, ma come al solito siamo noi.”
Non esiste il “popolo della rete”, esistiamo noi ed esiste la responsabilità per le nostre azioni. Dire che internet sta mettendo in pericolo la nostra capacità di pensare in modo approfondito è sbagliato, perchè internet non fa altro che rispondere alle nostre azioni. Come dire che internet sta mettendo in pericolo la nostra capacità di incontrarsi di persona perchè ci relazioniamo sempre di più on line. Ciò che ci manca è piuttosto una sorta di educazione al vivere digitale, che ci metta in condizione di trovare nel digitale quello che può arricchire la loro vita: un’educazione civica e del gusto alla vita in rete.
Internet non ci rende peggiori, è che mostriamo in internet la nostra parte peggiore. Facciamocene una ragione.

Stiamo andando verso il marketing esistenziale

Lo scenario contemporaneo entro cui si sta muovendo colui il quale fino a poco tempo fa veniva etichettato consumatore, è oggi per molti caratterizzato da una buona dose di incomprensibilità.
All’interno dei mondi del marketing e della comunicazione, che hanno sempre viaggiato paralleli, c’è l’impressione che tutto sia stato già provato. Il consumatore è sempre meno prevedibile, è ormai diventato infedele e la comunicazione di marca è di nuovo costretta ad un cambio di paradigma che si basa sull’individuazione di nuove narrazioni che rispondano a veri criteri di autenticità per i diversi profili di pubblico. A partire dagli anni novanta, il consumatore è diventato sempre più complesso e meno lineare nei suoi percorsi di consumo: è diventato più sensibile alle novità di mercato, più esplorativo e quindi infedele, più individualista e con un maggiore bisogno di rinnovarsi. Assistiamo alla crisi della segmentazione del consumatore, e perciò non rimane altra strada che considerarlo un individuo sempre più informato e che sa di poter disporre nei confronti dei marchi di un’influenza che in passato non aveva. Lo stesso individuo è ora in grado di mettere seriamente in crisi l’intero mondo della pubblicità on line: assistiamo ad una crescita esponenziale dell’utilizzo degli “ad block“, ovvero strumento che bloccano ogni forma di pubblicità.

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Ma allora come possono fare le marche a raccontare il loro prodotto? Il punto della questione, che mi sta davvero a cuore, è che nel campo del marketing e della comunicazione produciamo quotidianamente strategie che mettono in campo esperienze superficiali, che mettono al centro un consumatore prototipico che è alla ricerca di sensazioni ludiche, di entusiasmo, di cose stucchevoli. Inseguiamo cioè l’inganno, e la cosa più sconvolgente è che il consumatore questo lo sa, ma cade consapevolmente nella trappola.

Trovo veramente illuminante a questo proposito le parole di Stefano Gnasso, (in Existential Marketing, scritto con Paolo Iabichino) quando sostiene che il marketing debba restituire esperienze che siano pregne di senso dal punto di vista collettivo: “il prodotto o servizio deve sapere rispondere a una richiesta di senso che orienti e giustifichi l’agire quotidiano, sradicandolo dalla concezione individuale per inserirlo e radicarlo all’interno di un processo sociale che a sua volta sia in grado di consolidare un’identità frammentaria e contraddittoria”.

Secondo lui bisogna, in parole povere – ma è una cosa spaventosa -, pensare in maniera liminale, ossia creando dei progetti che siano “in grado di trasformare gli uomini e le comunità”.
Jonathan Gottschall è arrivato a dimostrare che l’evoluzione della specie umana è strettamente correlata alla sua innata capacità di raccontare e ascoltare storie: l’uomo è un animale narrativo e adesso ha bisogno di nuove morali. Ecco perchè sarà necessario ripartire da ciò che interessa veramente alle persone.
Il grande regista Oliver Stone, intervenuto allo Iab Form di Milano, ha iniziato il suo discorso con una frase bellisisma, che mi è subito entrata nel cuore.

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“Devi avere un piano da seguire e devi credere in ciò che fai per fare un buon prodotto”. Per ottenere il consenso, oggi vitale per ottenere visibilità, è necessario individuare contenuti che, trasformati in narrazione, sopperiscano ad un bisogno di comunità: bisogna pensare in termini di vantaggio proposto alle persone. C’è ora un grande bisogno di umanizzare la comunicazione, parlando delle persone e delle loro storie, che non saranno necessariamente stucchevoli. Rafforzeremo l’idea che ciò che ci fa vivere bene non sono le vittorie, ma l’impegno e la determinazione a fare bene: avremo guadagnato anche la capacità ad imparare dagli errori, e saremo di ispirazione per chi si sente imperfetto, per chi ha paura di non riuscire a fare tutto, per chi è umano e cerca un altro umano.

Lo scemo del villaggio di Umberto Eco

“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. (Fonte: Ansa)

Questa la dichiarazione fatta ieri a Torino da Umberto Eco, che, come sappiamo, è laureato in Comunicazione e Cultura dei media. E non è una novità: più volte ha pesantemente criticato i social media per il ruolo che assumono nell’interpretare la contemporaneità. I social media, si sa, sono nelle mani di chi li utilizza: tutti hanno voce, anche gli imbecilli che farebbero bene a non fiatare. Ma faccio fatica a capire perchè questo straordinario personaggio non spenda qualche parola anche per parlare dello straordinario potere che ci hanno dato. I social media sono l’espressione di democrazia, permettono a chiunque di mostrare ciò che è nella realtà. Si, perchè la finzione non funziona, viene subito smascherata. E uno che ce lo dimostra veramente è Gianni Morandi. È di qualche giorno fa la finta polemica innescata da Selvaggia Lucarelli, che ha provato ad intaccare la sua genuinità affermando che non è vero che lui stesso gestisce i canali social, ma c’è “dietro” un social media manager. Ma lui ha saputo ribattere che qualche volta viene aiutato da sua moglie nella gestione dei canali. Perchè i social media non sono il regno della bufala, fanno uscire quello che siamo nella realtà e, se provi a mentire, si vede.

Dove sta andando la comunicazione (d’impresa)

Appena ho appreso il tema del convegno che si sarebbe tenuto all’università di Venezia Ca’ Foscari il 9 Ottobre 2015, ho pensato che avrei dovuto partecipare, per ascoltare quali risposte sarebbero state state date ad un tema così complesso.
Organizzato da Unicom e Ca’ Foscari Alumni, con il supporto di Sintesi Comunicazione, l’evento ha avuto poi un acceleratore speciale – si perchè, come ha affermato, non ama particolarmente il termine moderatore -, lo storyteller Andrea Bettini, di cui ho recentemente letto l’interessante libro “Non siamo mica la Coca-Cola, ma abbiamo una bella storia da raccontare” (libro che consiglio di leggere, veramente).

All’incontro sono intervenuti quattro testimonial d’eccezione:
– Vladi Finotto, docente di business strategy e delegato del Rettore alle proprietà intellettuali, autoimprenditorialità e trasferimento tecnologico presso l’Ateneo veneziano;
– Elisa Menuzzo, Vice Presidente Came Group;
– Lerrj Piazza, head of marketing and communication O.Z. Spa;
– Federico Rossi, head of strategy Sintesi Comunicazione nonché consigliere e delegato territoriale Unicom.

Mi è piaciuto molto l’incipit che ha voluto dare Andrea Bettini: al consueto giro di presentazioni, ha chiesto che ciascuno dei quattro ospiti spiegasse non solo il ruolo aziendale che rappresenta, ma chi è nella vita quotidiana. Ne è uscito uno spaccato fatto di figli da gestire, hobby che non si riescono più a seguire, lavatrici da fare e passioni per la cucina. Ma non si è trattato di una divagazione: è servito a stabilire da subito un contatto, un senso di prossimità, a far scendere dal palco i relatori. E penso che questa sia una delle chiavi per capire dove sta andando la comunicazione, anche quella d’impresa:

un ritorno alle persone, dopo una fase storica in cui l’economia cresceva un po’ per tutti e si pensava che il compito della comunicazione fosse quello di far credere che tutto fosse straordinario e necessario a vivere una vita speciale

e si puntavano tutte le energie sul marketing esperienziale.

Andrea ha poi proposto questi quattro temi, su cui sono emerse interessanti riflessioni.

1. Dal prodotto all’esperienza
Finita la “bolla” degli anni 90/2000, siamo tornati a capire che l’esperienza deve necessariamente essere intesa come capacità di far bene un prodotto, ed inserirlo in un contesto di attenzione – anche ossessiva – per il consumatore. Il prodotto deve essere oggi il trampolino di lancio per raccontare una storia autentica. Perchè lo esige chi utilizza il prodotto: oggi è imprescindibile che ci sia coerenza tra prodotto ed esperienza proposta. La qualità del prodotto è diventata la base di ogni processo di comunicazione, è oggi un punto di partenza necessario non più sufficiente a fare la differenza. Per questo serve anche un brand che sia credibile e affidabile da tutti i punti di vista: ecco che la coerenza è un asset fondamentale. E’ richiesta un’attenzione e cura del dettaglio da dentro l’azienda, a partire da come si risponde al telefono. Il pubblico ora esige che le aziende mantengano le promesse che fanno: nel contesto della comunicazione il brand non è più dell’azienda, è passato nelle mani del consumatore.

2. Discutiamo di una rivoluzione: i social media
Ormai lo sappiamo: sono stati i social media a decretare il cambio di paradigma, iniziato con l’arrivo del web. Ma per le aziende è anche un’enorme opportunità di ascoltare il proprio pubblico senza intermediari, e capire chi sono veramente. In questo processo sono chiamate a farne parte anche le aziende più piccole, quelle tradizionalmente concentrate sul “fare” e che hanno paura di fare il salto di tuffarsi nei social perchè ritengono di non avere niente da dire, ma oggi hanno metabolizzato che non possono più tirarsi indietro. Ma è un problema di identità: in realtà non hanno ancora dedicato abbastanza tempo per capire chi sono realmente. E’ arrivato il tempo in cui non possono più permettersi di dare in appalto la gestione dei canali social ad aziende che non conoscono e condividono i loro valori. I social media hanno tuttavia semplicemente amplificato il passaparola. Conta di più avere persone disposte a parlare bene di un brand piuttosto che essere autoreferenziali, ecco perchè gli ambassador sono diventati così importanti. I social rappresentano tuttavia un campo di gioco difficile ed imprevedibile, è indispensabile non smettere di cercare la propria strada per ottenere il consenso.

3. Sostenibilità
Oggi ogni azienda deve comportarsi in modo sostenibile, è un tema fiammante nei circuiti mediatici seppure il consumatore di oggi sia in generale poco attento. Basti pensare alla crisis communication del caso Moncler, che ad oggi pare non abbia intaccato in modo visibile il fatturato dell’azienda.

Dove sta andando la comunicazione?
Elisa Menuzzo: “sta andando in posti che non conosciamo e che non domineremo noi, perchè saremo già vecchi”
Lerrj Piazza: “va dove va il consumatore, arriverà a far dialogare l’azienda con il singolo consumatore in un modo che ancora non sappiamo, forse la telepatia”
Vladi Finotto: “in moltissime direzioni, una di queste l’ignoto. Andrà dove andrà il consumatore, e continuerà a comportarsi in modo schizofrenico”
Federico Rossi: “sta andando ovunque, in modo velocissimo. Lo 0,1% di quello che abbiamo capito oggi, è già cambiato. Bisogna essere il più reattivi e visionari possibile, ma prenderà direttrici impossibili da prevedere”.

Questo post è frutto di liberi appunti e di una mia interpretazione di quanto è stato detto durante il convegno.

 

Comunicazione Sociale

Lo scorso venerdì (27 Febbraio 2015) ho avuto modo di assistere a un interessante incontro sulla Comunicazione Sociale, organizzato da Volontarinsieme, associazione che si occupa del coordinamento delle associazioni di volontariato della provincia di Treviso. L’obiettivo dell’incontro era sensibilizzare le organizzazioni del terzo settore sugli importanti risultati che possono derivare da un’efficace attività di comunicazione. Per me, che mi occupo prevalentemente di comunicazione “commerciale”, è stata un’occasione molto interessante sia per riflettere sulle particolari caratteristiche della comunicazione sociale, sia sulle competenze specifiche di cui bisogna tener conto, rispetto agli altri tipi di comunicazione, nel momento in cui si partecipa a progetti di comunicazione per organizzazioni del terzo settore. Inoltre, in qualità di responsabile della comunicazione all’interno del CAI Treviso, ero molto interessato a confrontarmi su come viene affrontata l’organizzazione della comunicazione all’interno delle associazioni. Purtroppo a livello locale ci si trova a lavorare spesso con realtà i cui processi interni sono completamente assorbiti dal “fare”: nella maggior parte dei casi la comunicazione consiste nel redigere un giornalino semestrale, che viene messo a disposizione presso la segreteria (e quindi di fatto non si comunica niente). Dall’altro lato ci sono organizzazioni non solo locali ma presenti sul territorio nazionale, che dispongono delle risorse per la comunicazione: in alcuni casi la comunicazione riesce ad arrivare efficacemente anche alle sedi periferiche, in altri casi osservo che a livello locale vige il fai da te, favorito anche da un comportamento dall’alto dell’organizzazione che dovrebbe essere più incisivo. Penso in particolare alle iniziative delle sedi periferiche dell’Avis, spesso condotte in modo “artigianale” pur in presenza di campagne nazionali che danno precise linee guida. Mi chiedo tuttavia se faccia bene questo iperfrazionamento associativo: ci sono le persone che avviano associazioni composte solo da se stesse, che potrebbero lavorare in modo più efficace se fosse applicato il concetto di “fare rete”.
Non è vero, poi, che solo le grandi organizzazioni possono disporre dei mezzi per occuparsi della comunicazione, in quanto non è possibile non comunicare. Lo faremo comunque, presenziando agli eventi in modo non adeguato, dando un’apparenza non credibile agli investitori, convincendo in modo inefficace i nostri sostenitori e sviluppando un’inadeguata coesione all’interno del gruppo. Cioè

la comunicazione è un investimento sulla nostra reputazione che produrrà una rendita certa e duratura

Ma cos’è esattamente la comunicazione sociale e a cosa serve? Una possibile definizione è:

uno strumento di conoscenza e di persuasione utilizzato da soggetti pubblici e privati per coinvolgere le persone (come cittadino, consumatore, donatore) e motivarle ad un’azione, rendendole partecipi di un problema a cui viene proposta una soluzione

Gli obiettivi della comunicazione sociale sono

  • Informare e aggiornare
    Portare all’attenzione del pubblico un concetto positivo, un progetto sociale, un intervento da condividere, un’azione responsabile, un’innovazione tecnologica.
  • Convincere e persuadere
    Presentare e “argomentare” attraverso dati, ricerche, testimonianze utili a dimostrare la veridicità di quanto comunicato. L’obiettivo deve essere non solo il “fare” ma anche il dotarsi di strumenti idonei alla nostra causa (per esempio attraverso il fundraising)
  • Stimolare e motivare
    Proporre nuovi modelli di comportamento; stimolare azioni destinate a contribuire ad una causa sociale; modificare concezioni errate.

L’attività di comunicazione non è solo rivolta all’esterno, ma deve avere come obiettivo anche il miglioramento dell’organizzazione interna, rafforzando l’identificazione con i valori proposti e migliorando i flussi informativi ed operativi.

Quali strumenti si devono adottare?
Molto spesso le organizzazioni puntano a dotarsi di strumenti come giornalino, sito internet, newsletter, senza prima aver ben chiari gli obiettivi da raggiungere. Ma la comunicazione sottointende un processo di comunicazione il cui risultato comprende la definizione di obiettivi ben definiti. Troppo spesso viene a mancare questo passo vitale, che impedisce la definizione di un’identità ben definita. Ecco che in questo scenario gli strumenti riveleranno tutta la loro inefficacia. Se invece sarà stato eseguito questo delicato compito, sarà possibile costruire un’immagine su fondamenta solide: potremmo costruire allora un’identità che darà origine a:

  1. immagine coordinata: logo, biglietto da visita, sito internet, carta intestata
  2. Molto importante scrivere un buon  testo di presentazione, che risponde alla domanda “qual è il mio obiettivo”: bastano poche parole, espresse in modo semplice e diretto. Senza commettere l’errore di essere autoreferenziali e “generalisti”: per esempio, si fa spesso riferimento ai “nostri valori” senza specificare di quali valori si tratta.
  3. altri strumenti: profili sui social network, newsletter, mailing cartaceo
  4. communication kit istituzionale: pieghevole, brochure, report attività, bilancio sociale, rassegna stampa
  5. communication kit per eventi: banner, rollup, t-shirt, …

Cosa è possibile fare per promuoversi? Qualche esempio:

  1. partecipazione agli eventi legati al territorio (manifestazioni, eventi culturali e sportivi, …)
  2. facendo rete con altre associazioni, meglio se affini alla nostra
  3. passaparola. Bisogna dare una buona impressione, per esempio ringraziando sempre i donatori e non trascurando di inviargli la ricevuta di deducibilità
  4. ufficio stampa: redazione comunicati ed invio alla propria lista, rapporti con i giornalisti e loro coinvolgimento nelle iniziative
  5. Web Marketing: posizionamento naturale sui motori di ricerca (intercettando i bisogni del nostro “target” attraverso un’analisi accurata delle keywords che questo utillizza sul web), campagne sponsorizzate di visibilità (p.es. Google Ad Grants), newsletter (con una particolare attenzione sia al modo in cui raccogliamo gli indirizzi, sia al modo in cui confezioniamo gli invii; l’analisi della “performance” di invio è molto importante, non va trascurata).

Qualche esempio di buona comunicazione? Ce ne sono molti, per lo più riguardanti campagne di sensibilizzazione. Ricordiamo in particolare la mostra fotografica ri-scatti organizzata dall’Associazione Terza Settimana, realizzata con gli scatti di nove senza fissa dimora che hanno partecipato ad un corso e poi un concorso per raccontare la loro vita attraverso la macchina fotografica. Ma la “buona” comunicazione non può limitarsi ad un evento: richiede un impegno costante e non può trascurare i canali che i nostri contatti useranno per raggiungerci. Per esempio, se mi faccio conoscere con uno stand presso un evento, è molto probabile che le persone cercheranno maggior informazioni e conferma delle impressioni ricevute attraverso il sito internet dell’associazione. Non mancano ovviamente gli esempi di buona comunicazione su internet: un esempio è quello dell’Opera San Francesco, che riesce a comunicare in modo chiaro, semplice e immediato.

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Perchè è un buon sito internet

  1. grafica sobria e pulita: semplice e con pochi colori. Questa semplicità si ritrova anche nel menu: pochi argomenti ben strutturati
  2. un messaggio che avvicina il visitatore, subito accanto al logo: “Siate egoisti, fate del bene!”. Stiamo comunicando direttamente a chi può sostenere la nostra causa, promettendogli un vantaggio immediato: “fare del bene è il miglior modo per sentirsi bene”
  3. Il testo “chi siamo” è esemplare per semplicità ed essenzialità: “Opera San Francesco per i Poveri, fondata nel 1959 dai Frati Cappuccini di Viale Piave a Milano, offre ai poveri assistenza gratuita e accoglienza. Oltre a soddisfare bisogni primari e reali di persone in grave difficoltà offre a loro ascolto e protezione.”
  4. Fa uso di un’infografica per descrivere i risultati conseguiti (i dati sono aggiornati!)
  5. Le azioni richieste al visitatore, “dona ora” e “iscriviti alla newsletter” sono posizionate strategicamente in una zona di massima visibilità.

“Il sale della terra”, quando la fotografia incontra il cinema

“Il sale della Terra” è un film-documentario che ha come protagonista il fotografo Sebastiao Salgado che racconta la storia della sua vita, trascorsa attraversando il mondo a “disegnare con la luce” con la sua canon. Sebastiao Salgado è nato nel 1944 ad Aimorés, un piccolo villaggio del Brasile: dopo esserci laureato in economia a Parigi decide di dedicarsi alla fotografia. Wim Wenders – non dimentichiamoci che è anche lui fotografo – ci regala un film impressionante, straordinario, che racconta le avventure di un uomo con una straordinaria capacità di capire l’umanità. Una delle prime immagini nel film è proprio uno scatto della Serra Pelada, un’enorme miniera in Brasile in cui oltre 100.000 persone passano la loro vita a scavare, alla ricerca della fortuna. Le immagini di parlano di una schiavitù che questa impressionante quantità di persone decide volontariamente di scegliere.

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Il film è un susseguirsi di reportage, a raccontare la siccità in Africa (Sahel), la terribile distruzione di vite causate dalla fame, le impressionanti malvagità di cui è capace l’uomo. L’uomo, nelle sua essenza, emerge anche nelle sue incredibili fotografie naturalistiche.

“Il sale della Terra” è un film che ogni appassionato di fotografia non può fare a meno di vedere. Ma non aspettarti che parli di fotografia, anzi lo fa pochissimo. Inoltre, quando afferma

Quando fai un ritratto non sei solo tu che fai la foto, la persona ti offre la foto

si rimane un momento perplessi sull’apparente semplicità di un messaggio che può sembrare scontato. Per fortuna arrivano gli scatti, che fanno capire l’interpretazione di Salgado.
Quello di Wenders è un omaggio ad uno straordinario fotografo, in cui è evidente il suo stile. Un regista che ho sempre appezzato moltissimo, a partire da “Il cielo sopra Berlino”. Ed era un pochino di tempo che non andavo al cinema, diciamo almeno da quando è nata Bianca, che ora ha compiuto tre anni. Infine, special thanks alla cognata Francesca che è rimasta a casa e si è assunta l’arduo compito di mettere a letto i bambini.

E, se serve ancora convincerti, ecco il trailer

Ecco come Google e l’internet delle cose ci cambieranno la vita

Google è ad oggi – l’affermazione è forte ma la penso così – l’azienda che più di ogni altra ha contribuito a cambiare il mondo. Certo, lo sappiamo che Internet non salverà il mondo. Non lo salverà perchè internet è un luogo popolato da persone: saremo noi, in caso, a salvare il mondo. Però l’ha cambiato, trasformando il nostro modo di accedere alle informazioni e di prendere delle decisioni.

E non sta rimanendo ferma a guardare quello che è successo. La sua fame di acquisti pare non avere fondo. Dopo i droni di Titan Aerospace, compra anche i satelliti di Skybox Imaging, per 500 milioni di dollari.
Skybox Imaging, fondata nel 2009 nella Silicon Valley, ha progettato dei satelliti in grado di scattare foto e video della Terra in alta risoluzione: inoltre, serviranno a fornire la connessione internet alla parte del mondo non ancora connessa.

Poi, acquisisce per 3,2 miliardi di dollari Nest Lab, azienda fondata nel 2010 da Tony Fadell e Matt Rogers. Questi ultimi, anche per me due sconosciuti, hanno fatto parte del team che creò l’iphone e l’ipad. Nest Lab produce dei “learning thermostat”, oggetti di design che apprendono le abitudini delle persone e regolano automaticamente la temperatura al posto nostro, badando anche al risparmio energetico.

Se questo non bastasse, pochi giorni fa acquisisce per 555 milioni di dollari Dropcam, azienda che produce sistemi di video sorveglianza. Per una cifra tutto sommato modesta – poco più di 100 dollari – offrirà delle webcam in alta risoluzione che possono essere controllate da remoto e da smartphone. Questi dispositivi percepiscono i movimenti e inviano una notifica al proprietario che può visualizzare ciò che sta accadendo.

Anche se Google sta lanciando un servizio di registrazione domini, è evidente che per Google internet è fatta principalmente di oggetti connessi tra di loro, che analizzano le informazioni e ci aiutano a prendere decisioni al nostro posto. Fino a pochi anni fa, era la statistica a governarci: prendevamo un campione di dati e ne facevamo la media. Ora, analizziamo (tutti) i dati alla ricerca di soluzioni intelligenti.

È quella che viene definita Internet of Things e che già conta, secondo Cisco, oltre 12 miliardi di device connessi: entro il 2015 ci si aspetta che il numero salirà a 25 miliardi. In Italia, secondo una recente ricerca della School of Management del Politecnico di Milano ci sarebbero ben 6 milioni di oggetti connessi tramite rete mobile, in aumento del 20% rispetto al 2012. Si tratta per il 47% di un mondo costituito da smart car (veicoli “intelligenti”), per il 26% da applicazioni di smart metering (contatori delle utenze), il 10% da soluzioni di smart asset management (monitoraggio di macchine, anche quelle per giocare nei bar, ascensori, …), il 9% dal mondo smart home & building, il 5% dalla smart logistics e il 2% da oggetti rientranti nella categoria smart city & smart environment.

I dati quindi saranno l’oro del ventunesimo secolo: i loro detentori sono definiti datekeeper. Grazie ai dati in loro possesso, i colossi del web potranno conoscere le nostre abitudini, in ogni ambito della vita quotidiana. C’è chi teme possibili violazioni della privacy, ma in questo modo vivremo in un mondo migliore.

C’è una doppia anima di internet: una parte che ci affascina, un altra che ci preoccupa. Temiamo che questi dati, in cattive mani, possano essere utilizzati contro di noi. Temiamo che sia monopolizzata la nostra capacità di agire: non dimentichiamo, infatti, che l’internet è composto ad oggi da 550 miliardi di documenti, mentre Google ne indicizza solo 2 miliardi.

Ma è anche vero che è da internet che sono dati movimenti di rivolta che hanno reso migliore il mondo. Mi riferisco in particolare agli open data, che servono ad abilitare i cittadini con le giuste conoscenze tecnologiche, allo sviluppo di applicazioni che contribuiscono al progresso.

Le pistole non uccideranno le persone, saranno le persone ad uccidere altre persone con le pistole.

Di quella volta che ho fatto arrabbiare groupon

groupon

Giusto al termine di una giornata in cui si parla di come in realtà molti blogger siano diventati un paid medium, discussione scatenata da questo splendido post di Mafe De Baggis – che adoro –  vi faccio vedere quanto costa, talvolta, la propria indipendenza (me la tiro un po’: ebbene, sappiate che non sono stato pagato da groupon)

La mail qui sopra mi è stata inviata da un tale che si dichiara “dipendente di groupon”, che evidentemente ha letto questo mio post su groupon.

Parliamone: la cosa che mi brucia di più è che mi abbia fatto notare un refuso: lo so, qual è si scrive senza accento. Ma io ci metto l’accento da quando ancora giocavo con i lego, non ci posso fare niente. Salvo inveire contro il mio detrattore grammar nazi (anche se, in realtà, avrei pure io qualcosa da ridire sulla correttezza grammaticale del suo messaggio).

Luigi – lo chiamerò così per rispetto alla sua privacy – non intendo certo dichiararmi professore di marketing: qualora avessi l’intenzione di diventarlo, sicuramente mi rivolgerò a te. Ho semplicemente espresso la mia opinione, riguardo al fatto che molti esercenti si affidano alle promozioni di groupon semplicemente perchè non sono in grado di farsi in casa questo servizio. Salvo, poi, trattare il cliente di serie B diversamente dal cliente di serie A che, da pollo, ha pagato il prezzo intero. Cosa che fa un’impressione piuttosto cattiva (credi che quel cliente tornerà? e mi pare l’unica speranza per l’esercente, che sicuramente non ha guadagnato molto dalla promozione).

Continuo ad essere convinto che la maggior parte degli esercenti che si affidano a groupon, in realtà non stiano facendo un buon marketing. Ovvero, che stiano pagando a caro prezzo uno strumento che rischia di dare un ritorno piuttosto basso. Non credi sia meglio offrire ai clienti un buon servizio, un’accoglienza straordinaria, e al termine della serata chiedergli di lasciare il proprio indirizzo email, in modo da essere informati su eventi e serate a tema?