Comunicazione Sociale

Lo scorso venerdì (27 Febbraio 2015) ho avuto modo di assistere a un interessante incontro sulla Comunicazione Sociale, organizzato da Volontarinsieme, associazione che si occupa del coordinamento delle associazioni di volontariato della provincia di Treviso. L’obiettivo dell’incontro era sensibilizzare le organizzazioni del terzo settore sugli importanti risultati che possono derivare da un’efficace attività di comunicazione. Per me, che mi occupo prevalentemente di comunicazione “commerciale”, è stata un’occasione molto interessante sia per riflettere sulle particolari caratteristiche della comunicazione sociale, sia sulle competenze specifiche di cui bisogna tener conto, rispetto agli altri tipi di comunicazione, nel momento in cui si partecipa a progetti di comunicazione per organizzazioni del terzo settore. Inoltre, in qualità di responsabile della comunicazione all’interno del CAI Treviso, ero molto interessato a confrontarmi su come viene affrontata l’organizzazione della comunicazione all’interno delle associazioni. Purtroppo a livello locale ci si trova a lavorare spesso con realtà i cui processi interni sono completamente assorbiti dal “fare”: nella maggior parte dei casi la comunicazione consiste nel redigere un giornalino semestrale, che viene messo a disposizione presso la segreteria (e quindi di fatto non si comunica niente). Dall’altro lato ci sono organizzazioni non solo locali ma presenti sul territorio nazionale, che dispongono delle risorse per la comunicazione: in alcuni casi la comunicazione riesce ad arrivare efficacemente anche alle sedi periferiche, in altri casi osservo che a livello locale vige il fai da te, favorito anche da un comportamento dall’alto dell’organizzazione che dovrebbe essere più incisivo. Penso in particolare alle iniziative delle sedi periferiche dell’Avis, spesso condotte in modo “artigianale” pur in presenza di campagne nazionali che danno precise linee guida. Mi chiedo tuttavia se faccia bene questo iperfrazionamento associativo: ci sono le persone che avviano associazioni composte solo da se stesse, che potrebbero lavorare in modo più efficace se fosse applicato il concetto di “fare rete”.
Non è vero, poi, che solo le grandi organizzazioni possono disporre dei mezzi per occuparsi della comunicazione, in quanto non è possibile non comunicare. Lo faremo comunque, presenziando agli eventi in modo non adeguato, dando un’apparenza non credibile agli investitori, convincendo in modo inefficace i nostri sostenitori e sviluppando un’inadeguata coesione all’interno del gruppo. Cioè

la comunicazione è un investimento sulla nostra reputazione che produrrà una rendita certa e duratura

Ma cos’è esattamente la comunicazione sociale e a cosa serve? Una possibile definizione è:

uno strumento di conoscenza e di persuasione utilizzato da soggetti pubblici e privati per coinvolgere le persone (come cittadino, consumatore, donatore) e motivarle ad un’azione, rendendole partecipi di un problema a cui viene proposta una soluzione

Gli obiettivi della comunicazione sociale sono

  • Informare e aggiornare
    Portare all’attenzione del pubblico un concetto positivo, un progetto sociale, un intervento da condividere, un’azione responsabile, un’innovazione tecnologica.
  • Convincere e persuadere
    Presentare e “argomentare” attraverso dati, ricerche, testimonianze utili a dimostrare la veridicità di quanto comunicato. L’obiettivo deve essere non solo il “fare” ma anche il dotarsi di strumenti idonei alla nostra causa (per esempio attraverso il fundraising)
  • Stimolare e motivare
    Proporre nuovi modelli di comportamento; stimolare azioni destinate a contribuire ad una causa sociale; modificare concezioni errate.

L’attività di comunicazione non è solo rivolta all’esterno, ma deve avere come obiettivo anche il miglioramento dell’organizzazione interna, rafforzando l’identificazione con i valori proposti e migliorando i flussi informativi ed operativi.

Quali strumenti si devono adottare?
Molto spesso le organizzazioni puntano a dotarsi di strumenti come giornalino, sito internet, newsletter, senza prima aver ben chiari gli obiettivi da raggiungere. Ma la comunicazione sottointende un processo di comunicazione il cui risultato comprende la definizione di obiettivi ben definiti. Troppo spesso viene a mancare questo passo vitale, che impedisce la definizione di un’identità ben definita. Ecco che in questo scenario gli strumenti riveleranno tutta la loro inefficacia. Se invece sarà stato eseguito questo delicato compito, sarà possibile costruire un’immagine su fondamenta solide: potremmo costruire allora un’identità che darà origine a:

  1. immagine coordinata: logo, biglietto da visita, sito internet, carta intestata
  2. Molto importante scrivere un buon  testo di presentazione, che risponde alla domanda “qual è il mio obiettivo”: bastano poche parole, espresse in modo semplice e diretto. Senza commettere l’errore di essere autoreferenziali e “generalisti”: per esempio, si fa spesso riferimento ai “nostri valori” senza specificare di quali valori si tratta.
  3. altri strumenti: profili sui social network, newsletter, mailing cartaceo
  4. communication kit istituzionale: pieghevole, brochure, report attività, bilancio sociale, rassegna stampa
  5. communication kit per eventi: banner, rollup, t-shirt, …

Cosa è possibile fare per promuoversi? Qualche esempio:

  1. partecipazione agli eventi legati al territorio (manifestazioni, eventi culturali e sportivi, …)
  2. facendo rete con altre associazioni, meglio se affini alla nostra
  3. passaparola. Bisogna dare una buona impressione, per esempio ringraziando sempre i donatori e non trascurando di inviargli la ricevuta di deducibilità
  4. ufficio stampa: redazione comunicati ed invio alla propria lista, rapporti con i giornalisti e loro coinvolgimento nelle iniziative
  5. Web Marketing: posizionamento naturale sui motori di ricerca (intercettando i bisogni del nostro “target” attraverso un’analisi accurata delle keywords che questo utillizza sul web), campagne sponsorizzate di visibilità (p.es. Google Ad Grants), newsletter (con una particolare attenzione sia al modo in cui raccogliamo gli indirizzi, sia al modo in cui confezioniamo gli invii; l’analisi della “performance” di invio è molto importante, non va trascurata).

Qualche esempio di buona comunicazione? Ce ne sono molti, per lo più riguardanti campagne di sensibilizzazione. Ricordiamo in particolare la mostra fotografica ri-scatti organizzata dall’Associazione Terza Settimana, realizzata con gli scatti di nove senza fissa dimora che hanno partecipato ad un corso e poi un concorso per raccontare la loro vita attraverso la macchina fotografica. Ma la “buona” comunicazione non può limitarsi ad un evento: richiede un impegno costante e non può trascurare i canali che i nostri contatti useranno per raggiungerci. Per esempio, se mi faccio conoscere con uno stand presso un evento, è molto probabile che le persone cercheranno maggior informazioni e conferma delle impressioni ricevute attraverso il sito internet dell’associazione. Non mancano ovviamente gli esempi di buona comunicazione su internet: un esempio è quello dell’Opera San Francesco, che riesce a comunicare in modo chiaro, semplice e immediato.

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Perchè è un buon sito internet

  1. grafica sobria e pulita: semplice e con pochi colori. Questa semplicità si ritrova anche nel menu: pochi argomenti ben strutturati
  2. un messaggio che avvicina il visitatore, subito accanto al logo: “Siate egoisti, fate del bene!”. Stiamo comunicando direttamente a chi può sostenere la nostra causa, promettendogli un vantaggio immediato: “fare del bene è il miglior modo per sentirsi bene”
  3. Il testo “chi siamo” è esemplare per semplicità ed essenzialità: “Opera San Francesco per i Poveri, fondata nel 1959 dai Frati Cappuccini di Viale Piave a Milano, offre ai poveri assistenza gratuita e accoglienza. Oltre a soddisfare bisogni primari e reali di persone in grave difficoltà offre a loro ascolto e protezione.”
  4. Fa uso di un’infografica per descrivere i risultati conseguiti (i dati sono aggiornati!)
  5. Le azioni richieste al visitatore, “dona ora” e “iscriviti alla newsletter” sono posizionate strategicamente in una zona di massima visibilità.

Perchè l’internet non salverà il mondo

Penso di essere una persona fortunata: amo il mio lavoro. Tutti dovrebbero avere questa opportunità, ma è un altro discorso. Mi piace entrare nelle aziende, parlare con le persone, ascoltare le loro necessità [di business] e proporre una soluzione.

Mi conoscono come uno con i piedi per terra: non prometto mai obiettivi che non sono certo saprò raggiungere (anzi, prometto di meno, sapendo di poter sfruttare poi il vantaggio di rimanere in una safety zone).
Le persone che incontro per lo più si dividono in due parti: quelle entusiaste delle (non più nuove) tecnologie digitali, e quelle pessimiste, disilluse. Alle prime, non è facile spiegare che le tecnologie digitali costituiscono uno strumento che offre enormi potenzialità. Ma l’internet non salverà mai il mondo, per il semplice fatto che l’internet siamo noi, la rete siamo noi. Dobbiamo superare il “vecchio” dualismo tra reale e digitale. Ogni tecnologia incorpora una cultura ed è a quella che reagiamo bene o male. Non è insomma la tecnologia il problema, ma come al solito siamo noi.

“Il tecno-determinismo, cioè l’idea che i cambiamenti sociali siano causati dall’innovazione tecnologica, è un approccio che se applicato ai media conduce a errori di lettura e di comprensione per un semplice motivo: è impossibile isolare una singola causa di cambiamento” e questo vale sia per quelli che vedono nel digitale la risposta a tutti i problemi, sia per quelli che lo considerano l’origine di tutti i mali. “Il punto è migliorarsi la vita, non certo dirsi tecno-pessimisti o al contrario tecno-entusiasti”. Internet è una piattaforma aperta, “Internet è quello che io riesco a farci e funziona per questo” ci suggerisce Mafe De Baggis, “chiunque pensi che si possa ‘alfabetizzare’ un’altra persona al digitale imponendogli la sua versione dei fatti non ha capito con che cosa ha a che fare”. Il punto non è insegnare alle persone come funzionano Facebook o Twitter, ma metterle in condizione di trovare nel digitale quello che può arricchire la loro vita. Una sorta di educazione al vivere digitale, un’educazione civica e del gusto alla vita in rete.
Liberiamoci del pregiudizio che il  digitale non faccia parte del nostro mondo, insomma che non sia reale. Inoltre, allontanandoci dalla realtà, ci farebbe del male, mortificherebbe i rapporti interpersonali e farebbe emergere il peggio di noi.

Ecco, ho fatto i miei compiti di Natale. Non mi resta che augurare di trascorrerlo nel modo che a ciascuno sembrerà più consono, ma rivolgendo uno sguardo al suo vero significato.

“Il sale della terra”, quando la fotografia incontra il cinema

“Il sale della Terra” è un film-documentario che ha come protagonista il fotografo Sebastiao Salgado che racconta la storia della sua vita, trascorsa attraversando il mondo a “disegnare con la luce” con la sua canon. Sebastiao Salgado è nato nel 1944 ad Aimorés, un piccolo villaggio del Brasile: dopo esserci laureato in economia a Parigi decide di dedicarsi alla fotografia. Wim Wenders – non dimentichiamoci che è anche lui fotografo – ci regala un film impressionante, straordinario, che racconta le avventure di un uomo con una straordinaria capacità di capire l’umanità. Una delle prime immagini nel film è proprio uno scatto della Serra Pelada, un’enorme miniera in Brasile in cui oltre 100.000 persone passano la loro vita a scavare, alla ricerca della fortuna. Le immagini di parlano di una schiavitù che questa impressionante quantità di persone decide volontariamente di scegliere.

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Il film è un susseguirsi di reportage, a raccontare la siccità in Africa (Sahel), la terribile distruzione di vite causate dalla fame, le impressionanti malvagità di cui è capace l’uomo. L’uomo, nelle sua essenza, emerge anche nelle sue incredibili fotografie naturalistiche.

“Il sale della Terra” è un film che ogni appassionato di fotografia non può fare a meno di vedere. Ma non aspettarti che parli di fotografia, anzi lo fa pochissimo. Inoltre, quando afferma

Quando fai un ritratto non sei solo tu che fai la foto, la persona ti offre la foto

si rimane un momento perplessi sull’apparente semplicità di un messaggio che può sembrare scontato. Per fortuna arrivano gli scatti, che fanno capire l’interpretazione di Salgado.
Quello di Wenders è un omaggio ad uno straordinario fotografo, in cui è evidente il suo stile. Un regista che ho sempre appezzato moltissimo, a partire da “Il cielo sopra Berlino”. Ed era un pochino di tempo che non andavo al cinema, diciamo almeno da quando è nata Bianca, che ora ha compiuto tre anni. Infine, special thanks alla cognata Francesca che è rimasta a casa e si è assunta l’arduo compito di mettere a letto i bambini.

E, se serve ancora convincerti, ecco il trailer

Nel 2014 impennata di vendite derivanti dal social commerce

Il volume delle vendite derivanti da social commerce sta crescendo velocemente: nel 2014 la  crescita è di tre volte rispetto al tasso delle vendite da e-commerce (62.5% rispetto al 17%)

Negli ultimi tempi si parla sempre di più di social commerce, soprattutto dopo che Facebook e Twitter hanno introdotto il tasto “buy”. Secondo una ricerca eseguita nel 2014 da BI Intelligence, i social media hanno oggi un forte impatto non solo a livello di vendite, ma anche, e soprattutto, sul processo di scelta (che influenza non solo l’ecommerce, ma anche le vendite nel retail).
Lo studio è stato condotto tenendo conto di varie metriche che permettono di valutare le performance dei diversi social, come ad esempio tassi di conversione, valore medio dell’ordine e redditi generati da condivisioni, like e tweet.

Si è abituati a pensare che i canali sui cui investire siano Facebook e Twitter, ma anche altri siti stanno avendo risultati significativi, soprattutto per quanto riguarda metriche specifiche, come il valore medio d’acquisto (o, per gli addetti ai lavori AOV: Average Order Value).
In particolare, stando a quanto pubblicato anche da Invesp la classifica è questa:

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Secondo Gianluca Diegoli, autore dell’interessantissimo libro Social Commerce:

I mutamenti che la Rete produrrà nel modo di creare, distribuire, promuovere, scambiare beni e servizi sconvolgeranno in modo radicale il sistema economico, in uno scenario che vedrà operatori di tutti i paesi vendere a livello internazionale. Il mutamento è economico e sociale ancora prima che tecnologico. (…)
Verrà messo in discussione il concetto di ecommerce freddo, self service: il compratore non è interessato solamente alla convenienza di prezzo e ma anche al lato sociale, culturale e di intrattenimento che l’ecommerce potrà svolgere.

Ora, tutti vogliono sapere su quali piattaforme focalizzare l’attenzione: ebbene, dai dati emerge come il social network che aiuta maggiormente i siti di e-commerce è Pinterest, il social basato sulle immagini. Secondo un’indagine di Piqora, una citazione su Pinterest, il cosiddetto “pin”, ha un valore medio di 0,78 dollari di vendite per un portale di commercio elettronico, dato in crescita del 25% rispetto al 2012 e da leggere in considerazione del fatto che ogni pin ha una media di condivisione di 10 volte. La piattaforma Shopify, soluzione che permette di realizzare siti di e-commerce, conferma: secondo i dati relativi alle prestazioni dei 25mila negozi online del gruppo, il traffico proveniente da Twitter è pari a quello che arriva da Pinterest, nonostante la popolarità maggiore del primo, e chi ha arriva dal social visuale ha il 10% di probabilità in più di fare un acquisto.

Ad oggi non possiamo considerare che l’e-commerce risulta ancora un fenomeno contenuto, rispetto al retail: nei paesi più “evoluti” arriva a valori intorno al 10%, stima media che ovviamente non tiene conto della decisamente diversa appetibilità che hanno i diversi settori merceologici. Se anche il social commerce arrivasse a coprire il 10% di questa nicchia, sarebbe già tanto.

Cos’è il klout score (e perchè dovrebbe interessarti)

Hai mai sentito parlare di klout score? Per gli appassionati di social media è un valore importante: è un punteggio (da 0 a 100) che esprime il livello della influenza sui social media, misurato da un algoritmo che valuta il modo in cui le persone interagiscono con i contenuti che posti.

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“Klout analizza milioni di singoli dati ogni giorno per comprendere chi sono i migliori creatori di contenuti, aiutarli a essere sempre migliori e aiutare i brand a entrare in contatto con queste persone”, spiega Joe Fernandez, cofondatore e CEO di Klout, azienda nata nel 2009.

Il punteggio “medio” sull’intera piattaforma è 41, il che vuol dire che da 50 in poi si tratta di un buon punteggio: non è facile arrivare sopra a 60, devi essere un buon produttore di contenuti in grado di interessare il tuo pubblico. Ovviamente, devi anche essere una persona che vive la rete, propensa a condividere le proprie esperienze.

Alla base del suo funzionamento, c’è un algoritmo, che analizza centinaia di azioni sui 15 social media che concorrono a creare il Klout: il retweet, il like e il reply su Twitter, Like, Share e Commenti su Facebook e così via. Quanto più i contenuti che produco sono interessanti, più il mio pubblico interagirà e quindi il mio klout salità. Inoltre, la piattaforma ti suggerisce quali contenuti condividere e chi seguire, con l’obiettivo di innalzare il klout.

Perchè dovremmo fare tutto questo? Quanto e perchè dovremmo credere al klout? Secondo un interessante articolo di wired, le aziende considerano questo parametro per valutare l’influenza in rete delle persone. Alle aziende piacciono gli influencer, perchè in un mondo digital sempre più sovraffollato di messaggi, se sono i nostri “amici” a parlare, dedicheremo loro molta più attenzione. I brand conoscono bene questo meccanismo, che ha rivoluzionato il modo di fare pubblicità. Oggi, oltre il 50% dei contenuti condivisi sui social media è creato da appena il 5% degli utenti, quindi se non parli con quel 5% sarà difficile entrare nel flusso, se non comprando direttamente costose ed inefficienti inserzioni pubblicitarie. Negli Stati Uniti ci sono aziende che concedono extra sconti se hai un klout score elevato: chi, meglio di un tuo amico, può parlare bene di un prodotto e un servizio da lui stesso provato?

Emilio Comici: decalogo del rocciatore

  1. Non affrontare mai la montagna con leggerezza: cioè senza una buona preparazione tecnica, fisica e morale.
  2. Ricordati che in montagna si cela sempre l’insidia: perciò assicurarsi sempre vicendevolmente, anche nei passaggi apparentemente facili.
  3. Fa sempre la sicurezza con la corda alla spalla, e possibilmente attraverso uno spuntone di roccia od un chiodo.
  4. Osserva sempre con massima attenzione tutti i movimenti del capocordata.
  5. Quando avanza il secondo di cordata, se tu fai sicurezza non sporgerti mai per parlare o per vederlo.
  6. Non smuovere sassi. Ricordati che uno dei maggiori pericoli dell’alpinismo in genere sono i sassi fatti cadere dal compagno che avanza.
  7. Non essere mai inquieto e non imprecare mai contro il compagno.
  8. Quando ti trovi in difficoltà mantieniti calmo e non aggrapparti disperatamente alla roccia.
  9. In un passaggio che per te è molto difficile, non salire mai a caso sperando di trovare l’appiglio, non proseguire mai quando hai mani gelate o rattrappite per la stanchezza, non arrischiarti mai se non hai almeno un chiodo sicuro massimo quattro metri sotto di te.
  10. Ubbidisci sempre a quella “voce interiore” che ti dice di non attaccare quel dato giorno la parete.

Ecco come Google e l’internet delle cose ci cambieranno la vita

Google è ad oggi – l’affermazione è forte ma la penso così – l’azienda che più di ogni altra ha contribuito a cambiare il mondo. Certo, lo sappiamo che Internet non salverà il mondo. Non lo salverà perchè internet è un luogo popolato da persone: saremo noi, in caso, a salvare il mondo. Però l’ha cambiato, trasformando il nostro modo di accedere alle informazioni e di prendere delle decisioni.

E non sta rimanendo ferma a guardare quello che è successo. La sua fame di acquisti pare non avere fondo. Dopo i droni di Titan Aerospace, compra anche i satelliti di Skybox Imaging, per 500 milioni di dollari.
Skybox Imaging, fondata nel 2009 nella Silicon Valley, ha progettato dei satelliti in grado di scattare foto e video della Terra in alta risoluzione: inoltre, serviranno a fornire la connessione internet alla parte del mondo non ancora connessa.

Poi, acquisisce per 3,2 miliardi di dollari Nest Lab, azienda fondata nel 2010 da Tony Fadell e Matt Rogers. Questi ultimi, anche per me due sconosciuti, hanno fatto parte del team che creò l’iphone e l’ipad. Nest Lab produce dei “learning thermostat”, oggetti di design che apprendono le abitudini delle persone e regolano automaticamente la temperatura al posto nostro, badando anche al risparmio energetico.

Se questo non bastasse, pochi giorni fa acquisisce per 555 milioni di dollari Dropcam, azienda che produce sistemi di video sorveglianza. Per una cifra tutto sommato modesta – poco più di 100 dollari – offrirà delle webcam in alta risoluzione che possono essere controllate da remoto e da smartphone. Questi dispositivi percepiscono i movimenti e inviano una notifica al proprietario che può visualizzare ciò che sta accadendo.

Anche se Google sta lanciando un servizio di registrazione domini, è evidente che per Google internet è fatta principalmente di oggetti connessi tra di loro, che analizzano le informazioni e ci aiutano a prendere decisioni al nostro posto. Fino a pochi anni fa, era la statistica a governarci: prendevamo un campione di dati e ne facevamo la media. Ora, analizziamo (tutti) i dati alla ricerca di soluzioni intelligenti.

È quella che viene definita Internet of Things e che già conta, secondo Cisco, oltre 12 miliardi di device connessi: entro il 2015 ci si aspetta che il numero salirà a 25 miliardi. In Italia, secondo una recente ricerca della School of Management del Politecnico di Milano ci sarebbero ben 6 milioni di oggetti connessi tramite rete mobile, in aumento del 20% rispetto al 2012. Si tratta per il 47% di un mondo costituito da smart car (veicoli “intelligenti”), per il 26% da applicazioni di smart metering (contatori delle utenze), il 10% da soluzioni di smart asset management (monitoraggio di macchine, anche quelle per giocare nei bar, ascensori, …), il 9% dal mondo smart home & building, il 5% dalla smart logistics e il 2% da oggetti rientranti nella categoria smart city & smart environment.

I dati quindi saranno l’oro del ventunesimo secolo: i loro detentori sono definiti datekeeper. Grazie ai dati in loro possesso, i colossi del web potranno conoscere le nostre abitudini, in ogni ambito della vita quotidiana. C’è chi teme possibili violazioni della privacy, ma in questo modo vivremo in un mondo migliore.

C’è una doppia anima di internet: una parte che ci affascina, un altra che ci preoccupa. Temiamo che questi dati, in cattive mani, possano essere utilizzati contro di noi. Temiamo che sia monopolizzata la nostra capacità di agire: non dimentichiamo, infatti, che l’internet è composto ad oggi da 550 miliardi di documenti, mentre Google ne indicizza solo 2 miliardi.

Ma è anche vero che è da internet che sono dati movimenti di rivolta che hanno reso migliore il mondo. Mi riferisco in particolare agli open data, che servono ad abilitare i cittadini con le giuste conoscenze tecnologiche, allo sviluppo di applicazioni che contribuiscono al progresso.

Le pistole non uccideranno le persone, saranno le persone ad uccidere altre persone con le pistole.

Perchè Amazon offre 5000 dollari a chi si licenzia

Jeff Bezos, AD di Amazon, ha avviato il programma “Pay to Quit”: denaro subito a chi sceglie di lasciare il posto di lavoro.

L’idea che sta alla base è decisamente esplosiva: “sul lungo periodo, il fatto che un dipendente occupi un posto che non desideri, non è sano né per il dipendente né per l’azienda”. Ecco che allora diventa conveniente offrire agli assunti da appena un anno 2000 dollari di incentivo per licenziarsi immediatamente: l’importo sale di anno in anno di 1000 dollari, fino ad un tetto di 5000. L’offerta viene comunicata tramite un contratto dal titolo “Per favore non accettare questa offerta”.

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Il modello Pay to Quit è in realtà stato lanciato da Zappos, uno dei più grandi ecommerce al mondo, e va direttamente al nocciolo del problema numero uno di ogni azienda. Ciascuno di noi, per poter essere produttivo, deve essere soddisfatto del proprio lavoro. Chi accetta del denaro per andarsene, evidentemente è una persona che non ha le caratteristiche che l’azienda cerca nei suoi collaboratori. Se ciò non bastasse, molto spesso la negatività di poche persone è un male contagioso, che si può espandere all’interno dell’azienda.

E tu, accetteresti dei soldi per stare a casa a non far niente?

Cose di Treviso e di #duegradiemezzo

Come il networking facilita la circolazione delle idee (e fa girare l’economia) è il tema principale dell’incontro con Domitilla Ferrari, che sarà ospite il 23 Aprile nella Chiesa di San Gregorio Magno, a Treviso.

Domitilla Ferrari, giornalista e social networker, ha scritto per noi Due gradi e mezzo di separazione, e viene a presentarci il suo lavoro. Si parlerà di come possiamo cogliere le opportunità che la rete offre.

Dialogheranno con Domitilla Ferrari Enrico Berto (Presidente Giovani Imprenditori Confindustria Veneto), Leonardo Buzzavo (Docente di Imprenditorialità e Strategie d’impresa Università Ca’ Foscari), Silvia Marangoni (Pluricampionessa del mondo di pattinaggio artistico a rotelle), Andrea Pizzola (Sales & Marketing Director Pixartprinting), Filippo Polegato (Astoria Vini). Luca Barbieri (Coordinatore editoriale Corriere Innovazione), sarà il moderatore della serata.

L’evento è stato possibile grazie alla connessione che Domitilla ha creato tra me e Giuliamaria Dotto. Abbiamo colto con molto piacere il suo invito a fare cose belle: e saremo i responsabili di nuove connessioni che verranno create con il pubblico che parteciperà all’evento. Perchè, come dice Domitilla, la rete ci arricchisce,  ci permette di avere una vita più interessante, di aprire la strada a nuove opportunità.

Per partecipare all’evento basta che ti registri su eventbrite.

La pagina ufficiale dell’evento è questa.

Social media: pericolo od opportunità per le aziende?

Ogni qualvolta mi imbarco nel compito di conversare di social media con le aziende – o meglio, persone che hanno aziende o detengono un ruolo di responsabilità al suo interno -, avverto sulla pancia un gap. Da una parte vedo il mio entusiasmo, la mia determinazione a mettercela tutta nell’esprimere come i social media possono costituire un importante vantaggio competitivo, come di fatto tutti noi ci siamo dentro e su come siano un aspetto vitale del “digital”, un sesto senso a cui le aziende non possono rinunciare per non perdere in competitività (ne ho parlato qui). Dall’altra parte, vedo spesso una diffidenza, una paura a lasciarsi andare per imbracciare questo cambiamento di paradigma.
Come ha ribadito Cristiano Nordio durante l’intervento a “Crisis Communication”, evento di Unindustria Treviso Servizi e Formazione, costituisce un percorso obbligato affidarsi al Marketing Bushido, codice d’onore dei samurai, basato su rispetto e valori. È necessario “tornare” ai valori, accorciando le distanze con le persone, che oggi, a seguito di questo nuovo potere dei social media, sono in grado di sanzionare i mercati.
La nuova valuta è la brand advocacy: siamo passati dal modello “awareness –> preferenza –> acquisto” al modello “consenso –> amicizia –> advocacy”. Le aziende non devono più guardare al consumatore medio, ma ai desideri e comportamenti d’acquisto degli innovatori, degli early adopters, di coloro che sono in grado di influenzare la reputation dell’azienda, con risultati diretti e netti sul suo fatturato. Il concetto chiave è affidato ad un tweet:
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Le aziende erano abituate a riempire contenitori, ora dobbiamo coinvolgere le persone raccontando loro una storia e rendendole protagoniste. La ricetta da seguire ora è semplice: ascolto (comprendi cosa vogliono veramente in tuoi clienti), persone (non dati statistici), storie (dai alla gente qualcosa da raccontare), valore (cosa ti rende divers0?), emozioni (facciamo qualcosa di memorabile), engagement (coinvolgere, non convincere), verità (responsabilità di essere coerenti), passione.

Ma cosa succede con le aziende del nostro territorio? Permane un atteggiamento di cautela e diffidenza, tanto che possiamo affermare:

i Social Media sono come il sesso adolescenziale: tutti lo vogliono fare, ma nessuno sa bene come. E non vale il fai da te.

Devo ammetterlo: il successivo interessantissimo intervento di Daniele Chieffi, responsabile rassegna stampa web di ENI, che ha parlato di come il danno reputazionale per le aziende che incorrono in una crisis communication abbia ha un impatto diretto, pesante, e difficilmente rimediabile, mi è parso in questo scenario indelicato. Le aziende presenti, che come la maggior parte temono le conseguenze di un investimento errato e hanno paura del cambiamento, hanno reagito ponendosi tre quesiti:

  1. Una volta entrato nei Social Media, qual è la via d’uscita?
    (risposta è: no, mi dispiace, non c’è. Al limite, puoi diminuire il livello di engagement)
  2. Posso decidere di non entrarci?
    (risposta è: no, mi dispiace. Anche se non ci sei, converseranno comunque su di te)
  3. Se vengo coinvolto in una crisis communication, posso decidere di non rispondere?
    (risposta è: se è una vera crisis, farai ancora più danni a non rispondere. Se è una sciocchezza, allora puoi provare a far finta di niente)

Le caratteristiche che contraddistinguono una crisis communication, che tale solo nel caso in cui la sua negatività è in grado di toccare l’asset fondamentale dell’azienda, sono:

  1. Amplificazione. Se qualcosa parte in maniera negativa, alla fine del percorso la sua negatività è aumentata di n volte. Ogni passaggio di conversazione aggiunge un qualcosa di negativo pensato dalla singola persona. Un post “sfortunato” di Patrizia Pepe su facebook è stato il responsabile della diminuzione del 50% di fatturato dell’azienda. Inutile dire che quel social media manager è stato licenziato (approfondisci qui).
  2. Velocità. La velocità della recente crisi dovuta alle dichiarazioni di Guido Barilla alla trasmissione radiofonica “La zanzara” è stata ripresa dai media americani ed è diventata trending topic su Twitter dopo soli 23 minuti (approfondisci qui).
  3. Capacità di penetrazione. La viralità garantisce che la notizia critica raggiunga in brevissimo tempo tutti gli stakeholder dell’organizzazione. Basta pensare al video in cui Alessandro Profumo balla ad una festa con un dipendente, ripreso dai giornali dopo la crisi Unicredit “Profumo balla, la banca affonda”. In questo caso, peccato che il video era stato girato più di un anno prima.
  4. Segmentazione e Microdimensionalità. La crisi può interessare solo un singolo cluster degli stakeholder aziendali. Per esempio la Nikon è stata costretta a ritirare dal mercato un obiettivo appena lanciato, ritirato perché una community di appassionati l’aveva pesantemente bocciato a causa della presenza di una (lieve!) dominante rossa.
  5. Anomalie tipologiche. Un qualsiasi genere di contenuto, anche non prodotto dall’azienda, può creare danni.
  6. Dannosità pervasiva. La permanenza sui motori di ricerca massimizza e rende permanente il danno. Basta provare a googlare
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Gli errori di comunicazione non si contano: basta pensare al caso Pomì, o alla campagna di Enel “Guerrieri”. Ma non tutti i casi finiscono male: la notizia del ritrovamento di pezzi di vetro negli omogeneizzati Nestlè era una bufala. In questo caso i community manager seppero intervenire subito con un’adeguata contro-informazione. Ancora: come sta andando il fatturato della Costa Crociere? Sul Web si trovano articoli del tipo “Costa Crociere non naufraga: cresce fatturato“: verità oppure sapiente lavoro di community manager?
Cosa fare quando ci si imbatte in un problema di crisis management? La regola numero uno è, in questo caso, evitarlo. Gli errori si possono evitare prevenendoli: pensare avanti e a tutte le possibili implicazioni in ciò che comunichiamo. Tuttavia, dice Daniele Chieffi

Il web è il regno della bufala

Dobbiamo considerare l’impatto di dinamiche “veloci” e “senza approfondimento” che possono diffondersi: oggi, un ufficio stampa impiega il 70% del proprio tempo a correggere le informazioni errate messe in circolazione.
Insomma, siamo tutti vulnerabili e per questo è necessario pianificare una strategia di azione in caso di necessità d’intervento.
Vale per tutti? Diciamo di si, visto che anche chi cerca informazioni sul proprio conto, oggi inizierà “googlando” il nostro nome. Consideriamo, ovviamente, che se non ci chiamiamo Barilla ben difficilmente riusciremo ad entrare nei trending topics di twitter, per quando grossa l’avremo combinata.