Perchè camminare nella natura rende le persone più felici

Oggi possiamo disporre di studi scientifici che dimostrano come la semplice attività di camminare in mezzo alla natura renda le persone più felici. Davvero, per me non c’era bisogno di uno studio scientifico per essere d’accordo: perchè allora molte persone delegano al possesso degli oggetti la responsabilità della loro felicità?
“Le nostre esperienze sono una parte più grande di noi stessi rispetto ai nostri beni materiali, dice Gilovich che ha condotto l’esperimento. “Si può anche pensare che una parte della vostra identità è collegata alle cose materiali, ma comunque rimangono separate da voi. Al contrario, le vostre esperienze sono davvero parte di voi. Noi siamo la somma totale delle nostre esperienze”.
Le persone felici non spendono tutto il loro denaro e le loro energie nell’acquisto di oggetti, ma nel vivere delle esperienze appaganti. Eppure molte persone si dedicano agli acquisti, quando si sentono sole e sotto stress.
“Quando giungiamo nella Natura, la nostra salute migliora – spiega Michelfelder, professore di medicina di famiglia alla Loyola University Chicago Stritch School of Medicine, che ha condotto uno studio sullo stress – Gli ormoni dello stress aumentano nel nostro sangue lungo la giornata e prendendosi qualche momento mentre si cammina per riconnettersi con i nostri pensieri interiori e con il nostro corpo quei dannosi ormoni dello stress si abbassano. Camminando con la nostra famiglia o gli amici è anche un ottimo modo per abbassare la pressione sanguigna e renderci più felici”.

La ricerca dimostra che camminare a piedi nei boschi può anche svolgere un ruolo nella lotta contro il cancro. Gli scienziati hanno infatti scoperto che le piante emettono delle sostanze chimiche chiamate “phytoncides” (fitoncidi) che le proteggono dalla putrefazione e dagli insetti.
Ebbene, queste sostanze sono utili non solo alle piante ma anche agli essere umani, poiché quando le respiriamo si verifica un aumento nei livelli delle cellule “Natural Killer”, che sono parte della risposta immunitaria al cancro.

“Quando camminiamo in un bosco o in un parco – afferma il prof. Michelfelder – i nostri livelli di globuli bianchi aumento e si abbassa anche la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e il livello di cortisolo, l’ormone dello stress”.

Dove sta andando la comunicazione (d’impresa)

Appena ho appreso il tema del convegno che si sarebbe tenuto all’università di Venezia Ca’ Foscari il 9 Ottobre 2015, ho pensato che avrei dovuto partecipare, per ascoltare quali risposte sarebbero state state date ad un tema così complesso.
Organizzato da Unicom e Ca’ Foscari Alumni, con il supporto di Sintesi Comunicazione, l’evento ha avuto poi un acceleratore speciale – si perchè, come ha affermato, non ama particolarmente il termine moderatore -, lo storyteller Andrea Bettini, di cui ho recentemente letto l’interessante libro “Non siamo mica la Coca-Cola, ma abbiamo una bella storia da raccontare” (libro che consiglio di leggere, veramente).

All’incontro sono intervenuti quattro testimonial d’eccezione:
– Vladi Finotto, docente di business strategy e delegato del Rettore alle proprietà intellettuali, autoimprenditorialità e trasferimento tecnologico presso l’Ateneo veneziano;
– Elisa Menuzzo, Vice Presidente Came Group;
– Lerrj Piazza, head of marketing and communication O.Z. Spa;
– Federico Rossi, head of strategy Sintesi Comunicazione nonché consigliere e delegato territoriale Unicom.

Mi è piaciuto molto l’incipit che ha voluto dare Andrea Bettini: al consueto giro di presentazioni, ha chiesto che ciascuno dei quattro ospiti spiegasse non solo il ruolo aziendale che rappresenta, ma chi è nella vita quotidiana. Ne è uscito uno spaccato fatto di figli da gestire, hobby che non si riescono più a seguire, lavatrici da fare e passioni per la cucina. Ma non si è trattato di una divagazione: è servito a stabilire da subito un contatto, un senso di prossimità, a far scendere dal palco i relatori. E penso che questa sia una delle chiavi per capire dove sta andando la comunicazione, anche quella d’impresa:

un ritorno alle persone, dopo una fase storica in cui l’economia cresceva un po’ per tutti e si pensava che il compito della comunicazione fosse quello di far credere che tutto fosse straordinario e necessario a vivere una vita speciale

e si puntavano tutte le energie sul marketing esperienziale.

Andrea ha poi proposto questi quattro temi, su cui sono emerse interessanti riflessioni.

1. Dal prodotto all’esperienza
Finita la “bolla” degli anni 90/2000, siamo tornati a capire che l’esperienza deve necessariamente essere intesa come capacità di far bene un prodotto, ed inserirlo in un contesto di attenzione – anche ossessiva – per il consumatore. Il prodotto deve essere oggi il trampolino di lancio per raccontare una storia autentica. Perchè lo esige chi utilizza il prodotto: oggi è imprescindibile che ci sia coerenza tra prodotto ed esperienza proposta. La qualità del prodotto è diventata la base di ogni processo di comunicazione, è oggi un punto di partenza necessario non più sufficiente a fare la differenza. Per questo serve anche un brand che sia credibile e affidabile da tutti i punti di vista: ecco che la coerenza è un asset fondamentale. E’ richiesta un’attenzione e cura del dettaglio da dentro l’azienda, a partire da come si risponde al telefono. Il pubblico ora esige che le aziende mantengano le promesse che fanno: nel contesto della comunicazione il brand non è più dell’azienda, è passato nelle mani del consumatore.

2. Discutiamo di una rivoluzione: i social media
Ormai lo sappiamo: sono stati i social media a decretare il cambio di paradigma, iniziato con l’arrivo del web. Ma per le aziende è anche un’enorme opportunità di ascoltare il proprio pubblico senza intermediari, e capire chi sono veramente. In questo processo sono chiamate a farne parte anche le aziende più piccole, quelle tradizionalmente concentrate sul “fare” e che hanno paura di fare il salto di tuffarsi nei social perchè ritengono di non avere niente da dire, ma oggi hanno metabolizzato che non possono più tirarsi indietro. Ma è un problema di identità: in realtà non hanno ancora dedicato abbastanza tempo per capire chi sono realmente. E’ arrivato il tempo in cui non possono più permettersi di dare in appalto la gestione dei canali social ad aziende che non conoscono e condividono i loro valori. I social media hanno tuttavia semplicemente amplificato il passaparola. Conta di più avere persone disposte a parlare bene di un brand piuttosto che essere autoreferenziali, ecco perchè gli ambassador sono diventati così importanti. I social rappresentano tuttavia un campo di gioco difficile ed imprevedibile, è indispensabile non smettere di cercare la propria strada per ottenere il consenso.

3. Sostenibilità
Oggi ogni azienda deve comportarsi in modo sostenibile, è un tema fiammante nei circuiti mediatici seppure il consumatore di oggi sia in generale poco attento. Basti pensare alla crisis communication del caso Moncler, che ad oggi pare non abbia intaccato in modo visibile il fatturato dell’azienda.

Dove sta andando la comunicazione?
Elisa Menuzzo: “sta andando in posti che non conosciamo e che non domineremo noi, perchè saremo già vecchi”
Lerrj Piazza: “va dove va il consumatore, arriverà a far dialogare l’azienda con il singolo consumatore in un modo che ancora non sappiamo, forse la telepatia”
Vladi Finotto: “in moltissime direzioni, una di queste l’ignoto. Andrà dove andrà il consumatore, e continuerà a comportarsi in modo schizofrenico”
Federico Rossi: “sta andando ovunque, in modo velocissimo. Lo 0,1% di quello che abbiamo capito oggi, è già cambiato. Bisogna essere il più reattivi e visionari possibile, ma prenderà direttrici impossibili da prevedere”.

Questo post è frutto di liberi appunti e di una mia interpretazione di quanto è stato detto durante il convegno.

 

L’ultima impresa di Hervé Barmasse

Hervé e’ partito dal Bivacco Bossi ha scalato la cresta di Furggen, è sceso dalla cresta dell’Hörnli, ha attraversato la base della parete Nord, ha risalito la cresta di Zmutt ed è sceso nuovamente dalla cresta del Leone arrivando alla capanna Carrel, dove lo attendeva suo padre Marco, dopo solo 17 ore. L’alpinista valdostano ha poi continuato da solo la discesa verso Cervinia. L’abbondante neve presente sia sulla discesa della via normale svizzera dalla cresta dell’ Hörnli, sia in salita sui dentini di Zmutt e nella parte finale della cresta medesima, ha creato non poche difficoltà: alta fino alla vita, rendeva rischioso ogni movimento all’alpinista che procedeva slegato.

herve barmasse

«Dietro a questa impresa, nessuna idea di record (altrimenti l’estate e la bella stagione sarebbero stati i momenti o la stagione più opportuna per quel genere di impresa) – ha dichiarato Hervé – ma la ricerca dell’ingaggio, dell’incertezza, e del confronto montagna/uomo, che è l’essenza dell’alpinismo; per questo motivo il percorso è stato affrontato in completa solitudine e nella stagione meno adatta e più fredda; pur sapendo che nessuno era mai riuscito nel progetto».
Tra le curiosità da ricordare, il padre Marco Barmasse aveva compiuto la prima solitaria della Via degli strapiombi, aperta da Luigi Carrel, detto il Carrellino, durante il record stabilito nell’estate del 1985 a 36 anni. Hervé Barmasse, sempre a 36 anni, ha effettuato il concatenamento invernale e la via degli strapiombi in prima assoluta.
Con questi due exploit, Hervé Barmasse, ha riportato ancora una volta l’attenzione sulle scalate alpine e un alpinismo a chilometri zero, senza rincorrere montagne himalayane, terre lontane o valli sperdute, ma semplicemente usando fantasia e immaginazione.

Come mettersi in regola con la nuova normativa sull’utilizzo dei cookie

A pochi giorni dall’entrata in vigore della nuova normativa sull’utilizzo dei cookie, non mi sorprende affatto la confusione che vaga ancora intorno. Pochi hanno delle idee su cosa fare, alcuni hanno molte idee ma confuse e molti non ne hanno proprio. Secondo una ricerca di Federprivacy

Il 67% dei siti italiani mancano di una idonea informativa sui cookie e non chiedono il consenso al loro utilizzo nel “form”.

Ma, secondo ilsole24ore,  italiano su tre non legge le normative sulla privacy quando utilizza un servizio online, ritenendole troppo lunghe e complicate. A chiarire le idee arriva giusto questo provvedimento per l’ “individuazione delle modalità semplificate per l’informativa e l’acquisizione del consenso per l’uso dei cookie” (229/2014). Ampissimo il consenso riscosso dalle maggiori associazioni quali DMA Italia, Fedoweb, IAB Italia, UPA e Netcomm che hanno elaborato un prontuario su tutto quanto occorre sapere circa gli obblighi dei proprietari o amministratori di siti web.

Cosa dice il provvedimento? Per rispettare la normativa, è necessario che i siti che installano cookie (anche tramite strumenti terzi) mostrino un banner alla prima visita dell’utente, predispongano una cookie policy e permettano all’utente di fornire il consenso secondo le indicazioni fornite dalla legge. Prima che il consenso venga fornito, nessun cookie, ad eccezione dei cookie tecnici, può essere installato.

Sono cookie tecnici quelli strettamente necessari all’erogazione del servizio: rientrano tra questi anche i cookie statistici di terze parti (es. Google Analytics), ma solo qualora i dati vengano resi anonimi prima di essere salvati dal servizio terzo.

C’è però un’ulteriore complicazione: i titolari dei siti che impiegano cookie di profilazione sono assoggettati all’obbligo di notifica preventiva al Garante, ai sensi dell’art. 37, comma 1, lett. (d) del Codice Privacy. In fondo, è pur vero che siamo in Italia.

Cosa succederà a chi sbaglia? Ovviamente una multa salata:

  • da € 6.000 a € 36.0000 per omessa informativa o informativa non idonea;
  • da € 10.000 a € 120.0000 per installazione di cookie senza il consenso degli utenti;
  • da € 20.000 a € 120.0000 per omessa o incompleta notificazione al Garante (nel caso si utilizzino cookie di profilazione).

Un consiglio: in caso di dubbio, non rivolgetevi allo smanettone, ma ad un avvocato esperto in materia. Ma concentratevi anche sull’informativa estesa!

Cadini del Brenton e Cascata della Soffia – Valle del Mis (BL)

Cadini del Brenton e Cascata della Soffia si trovano nella Valle del Mis, all’interno del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi, in località Sospirolo.

I Cadini sono stati prodotti grazie all’erosione dell’acqua, che ha scavato queste meravigliose marmitte.

Come si arriva
Dal Lago artificiale del Mis si incontra, nei pressi del parcheggio, il Giardino Botanico, da cui si accede ai Cadini.

Da Santa Giustina si prosegue verso Belluno. Dopo 2 Km si svolta a sinistra in direzione di Meano e della Valle del Mis. Si segue poi la segnaletica fino ad arrivare al lago. Si percorre il lungo lago fino ad incontrare, in corrispondenza del parcheggio, il Giardino Botanico che dà accesso ai cosiddetti Cadini. È presente un percorso con scalini e rampe di legno. Tornando indietro e attraversando il ponte sulla strada asfaltata si svolta a destra fino al bar, da cui parte un sentiero che porta alla Cascata della Soffia.

cadini del brenton

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cadini del Brenton valle del mis

I rifugi possono continuare a fare solo i rifugi?

Chi ha almeno 40 anni ricorda ancora, quando era bambino, il tempo in cui i rifugi erano dei luoghi in cui ci si “rifugiava”. Per lo più si avvivava la sera, per partire la mattina seguente per una giornata in quota. Ci si accontentava di mangiare quello che c’era, senza badare troppo ai dettagli, e si andava a dormire in camerate di 15 persone.
Ora però, ce lo dice Ezio Alimonta, propietario e gestore del’omonimo rifugio Alimonta ai piedi della Vedretta degli Sfulmini (Dolomiti di Brenta) e presidente dell’Associazione gestori dei rifugi del Trentino:

Il modo di fare accoglienza nei rifugi, parlo dei rifugi alpinistici, è cambiato semplicemente perché negli ultimi vent’anni è cambiata profondamente la tipologia di chi frequenta le nostre strutture. Nel concreto sono letteralmente andati sparendo quelli che per più di un secolo sono stati i principali fruitori dei rifugi, ovvero gli alpinisti in senso stretto

Cosa succede ora? Pare che sia cambiato il modo di andare in montagna: oggi si arriva in rifugio per pranzo, dopo una passeggiata, e non ci si accontenta più di un semplice minestrone.

La scorsa estate mi stavo tranquillamente pranzando all’interno del Rifugio Treviso, quando all’improvviso scende un acquazzone e l’interno si riempie di persone. Fioccano le ordinazioni: vengono richiesti capuccini non troppo caldi e con latte a parte, latte macchiato ma mi raccomdando non troppo, caffè macchiato in schiuma cremosa e abbondante, e via dicendo… Percepisco la tensione di Mara che inizia a correre da un tavolo all’altro, mentre alcuni ospiti iniziano a spazientirsi per l’attesa. Intervengo: “Stai tranquilla, che sarà mai? Ciascuno aspetterà il proprio turno”.
Ricordo ancora lo stupore di Marina, gestore del Rifugio Crosta, che mentre ero presente ricevette la chiamata da un ospite che chiese per la sera “una camera singola con bagno privato in camera, grazie”.
C’è sicuramente un tempo passato in cui la sera, in rifugio, si cantava tutti insieme. Oggi, se lasci un windstopper incustodito sopra una sedia, dopo 30 minuti non lo ritrovi più (capitato anche questo, al Rifugio Pradidali, gestito da una persone squisita: Duilio Boninsegna). Ma capita anche di peggio: in alta quota scompaiono regolarmente piccozze e scarponi. Rassegniamoci, viviamo nell’era in cui se cerchi su Google “ladri in rifugio” viene fuori di tutto. Ma, paradossalmente, solo da pochi anni si inizia a parlare di economia del dono: sarà proprio perchè, mentre in passato era naturale, ora è diventata un bene preziosissimo.
Ma possiamo ora invocare un “ritorno” all’idea ormai sorpassata di rifugio come semplice ricovero? Probabilmente no, anche gli alpinisti in senso stretto si sono ormai abituati alle comodità. In realtà già c’è una distinzione fatta dalla natura, tra i rifugi facilmente accessibili e quelli non alla portata di strade e funivie. Più volte, camminando in montagna, mi sono chiesto perchè, a tutela della funzione di rifugio, non venga attuata una classificazione, in modo chiaro e immediatamente capibile dai fruitori. Ci sono rifugi che ora si trovano lungo strade ad alta frequentazione: caso emblematico è il Rifugio Passo Sella, ora trasformato in resort di lusso. Invoco davvero una classificazione a stelline: ai rifugi più spartani assegnerei dieci stelline, una stellina o mezza stellina al rifugio lungo la strada.

Wanderlust: l’irresistibile desiderio di andare in montagna

C’è chi sta bene a casa propria, sta bene nelle vesti del pantofolaio e passa la domenica seduto sul divano, a guardare la tv. Ma c’è anche chi non riesce a stare un attimo a casa. Il fenomeno è noto come wanderlust: la “sete” di scoprire nuovi posti non si esaurisce mai. Secondo alcuni studi il fenomeno sarebbe collegato ad un gene del DNA, il DRD4, che è associato ai livelli di dopamina nel cervello.
Un altro gene, il DRD4-7R, è stato rinominato il gene della Wanderlust, grazie alla sua correlazione con grandi livelli di curiosità e irrequietezza. Il gene non è presente in tutti: solo il 20% della popolazione ce l’ha ed è più comune nelle regioni in cui il passato e la storia hanno spinto i popoli a migrare.

Secondo un altro studio fatto da David Dobbs della National Geographic, il gene DND4-7R apparterrebbe a persone che sono “più predisposte al rischio, a esplorare nuovi posti, cibi, idee, relazioni, droghe o opportunità sessuali”. Dobbs non tralascia l’aspetto delle migrazioni, confermando che questo gene è più comune tra i popoli moderni che hanno affrontato (e tutt’ora affrontano) una storia di spostamenti e trasferimenti nel tempo.

Secondo un’altra ricerca di Garret Lo Porto dell’Huffington Post, il gene DRD4-7R è causato da un comportamento che risale ai tempi dell’uomo di Neanderthal, il che renderebbe chi lo possiede completamente “fuori controllo”.

Finora, non avevo mai letto il desiderio di andare in montagna con questa chiave di lettura. C’è un enorme quantità di persone che conducono durante la settimana una vita apparentemente normale, ma in realtà sanno che si stanno caricando per il weekend che passeranno in montagna. E passano tutte le sere della settimana a fantasticare studiando guide e documentandosi. Queste persone hanno al loro interno l’impulso all’esplorazione. Io stesso, in tempi neanche troppo remoti, avevo il bagagliaio della macchina sempre pronto con tenda ed attrezzi per arrampicare. Il venerdì dopo il lavoro si partiva, e non si tornava a casa quasi mai prima di domenica sera. Eravamo più giovani, potevamo dormire dove capitava: il più delle volte la tenda era piantata a poche decine di metri dall’automobile parcheggiata nei pressi dei passi di montagna.

Ho sempre pensato che sentiamo il bisogno di avvicinarci alla natura, nella misura in cui la via cittadina ci allontana, e nella misura in cui nella nostra testa si è creato uno spazio nuovo, diverso. L’uccellino che è nato un gabbia sarà sicuramente infelice, ma senza sapere in realtà cosa fare.

Nella nostra società è in atto un fenomeno parallelo: sono in aumento i casi di persone che fuggono dalla vita “cittadina” e vanno a stare in posti dove si vive ancora a contatto con la natura. Per esempio così hanno fatto i miei amici Marina ed Enrico, che a primavera del 2008 hanno lasciato la vita cittadina per prendere in gestione il Rifugio Crosta, a 1750 m. d’altitudine, all’imbocco del vallone di Solcio. Posto in un bellissimo alpeggio, dove gli unici rumori sono quelli dei campanacci, distante 12 Km dall’ultimo avamposto “civilizzato”, la piccola cittadina di Varzo. E il loro umore ovviamente è subito salito alle stelle, e mai sceso.
La loro storia è simile a quella di Maurizio e Carla, che nel 2003 lasciano Ferrara per andare a vivere a malga Sorgazza in Val Malene, una vallata a sud di Cima d’Asta, nel gruppo montuoso dei Lagorai.

Persone, un esercito di persone, che avevano bisogno di sentirsi migliori, e vivono il loro “into the wild” in una nuova dimensione. Purtroppo a Christopher McCandless, giovane appena laureato del West Virginia, andò decisamente peggio.