Colpo di scena: l’algoritmo di Facebook cambia ancora

C’è sempre tanta gente che protesta ogni volta che l’algoritmo di Facebook, ovvero l’insieme delle regole che determinano la visibilità dei contenuti altrui, cambia. Quello che si chiama news feed sceglie infatti ciò che è più importante per noi, e ce lo fa vedere prima di tutto il resto (i contenuti che Facebook ritiene che non ci interessino). Da Dicembre 2015 ad ora l’algoritmo è cambiato ben 4 volte, il che sta ad indicare che questa cosa è particolarmente importante. La cosa che sta succedendo è che stanno diminuendo, e di tanto, le condivisioni che riguardano post con link esterni – cioè che portano su siti esterni -, e stanno aumentando notevolmente le condivisioni di contenuti che incentivano all’utente a passare più tempo all’interno di Facebook (ma va?). Ecco i due grafici:

facebook link posts

facebook video shares

Ad essere maggiormente colpiti sono i contenuti delle pagine aziendali, proprio quelli che molte aziende usano per ottenere visibilità. Per molto tempo, sicuramente troppo, le aziende hanno pensato che Facebook fosse uno strumento fantastico per raggiungere i loro “amici”, ora è arrivata Facebook ad aiutarci a  vedere di meno ciò che non ci piace, ovvero la pubblicità. Dobbiamo ringraziare Facebook che ci dice, con tono amichevole, «abbiamo migliorato il News Feed perché tu possa vedere le storie che sono più rilevanti per te». Secondo me era fondamentale che qualcuno ci ricordasse che i social media sono nati e si sono sviluppati per costruire relazioni sociali, prima che commerciali. Facebook pretende questo dalla sua piattaforma, e sa che se questo non accade, è destinata a morire. E non gli importa nulla dei soldi che le aziende spendono per gestire le pagine aziendali, non gliene importa nulla se ci sono aziende che ci investono quasi tutto il loro budget, ed ora c’è qualcuno che si sta mettendo a piangere.
Anzi, sembra quasi a dire, con il sorriso stampato sulla bocca: ma non potevi pensarci prima a costruire una tua strategia digitale pensando a quali strumenti e in quale modo usarli per costruire una relazione autentica con i tuoi clienti?

Cosa succede su internet in un minuto, e cosa ci possiamo fare

Ogni minuto su internet succedono un sacco di cose. Ognuno di noi è lì dentro, ritagliandosi la propria fetta di torta. Per esempio io non sono solito fare gliswipes su Tinder, un’app di dating che ti geolocalizza per individuare chi è interessato vicino a te.
Questa infografica di VisualCapitalist rappresenta uno spaccato sulla vita delle persone, oggi. Persone che usano internet per cercare informazioni, per rilassarsi ascoltando musica, per rimanere in contatto con i propri amici e per fare acquisti. Il 73% di questo tempo lo passiamo sullo smartphone (+48% negli ultimi due anni, ci suggerisce l’ultimo rapporto AudiWeb), e si tratta di un’ora e mezza al giorno.
Tutti questi numeri ci dicono che appena dietro l’angolo ci aspettano delle grandi opportunità, sta a noi saperle cogliere – se ci interessa – ma non possiamo farlo procedendo in una direzione casuale: è fondamentale avere una propria strategia digitale. Il punto è proprio questo: esserci non basta, ci vuole consapevolezza che si può costruire se abbiamo l’umiltà di comprendere che è necessario impegnarsi, e siamo in grado di liberarci dai nostri schemi, sia mentali che di business. Tutti questi media sono lì, belli e apparentemente alla portata di tutti, ma le cose non stanno realmente così.
Se saremo in grado di compiere questo passo di consapevolezza, potremmo raggiungere la necessaria freschezza mentale, altrimenti saremmo solo degli ottusi che si compiacciono della propria mediocrità.

Ora Google penalizza i siti non responsive

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Sappiamo già che la maggior parte del traffico web avviene da dispositivi mobile: per migliorare l’esperienza da mobile sul motore di ricerca, Google ha introdotto un aggiornamento sul suo algoritmo di posizionamento, penalizzando i siti non responsive, ovvero la cui visualizzazione non si adatta alla dimensione ridotta degli schermi dei dispositivi mobile.

Da Aprile 2015, dopo l’update denominato Mobilegeddon, i siti non responsive venivano già penalizzati nelle ricerche effettuate da mobile. Ma, come ha spiegato in un post Klemen Klobove, “Cercare su Google una risposta buona e rilevante, non dovrebbe dipendere dal device utilizzato. Si dovrebbe ottenere la migliore risposta a un’interrogazione su smartphone, tablet o desktop”.

I siti che non superano il test per verificare se il sito è mobile-friendly dovranno correre ai ripari in poche settimane.

Uno studio di Adobe sulle attività dei consumatori su siti di marca dal secondo trimestre 2014 al secondo trimestre 2015 ha rilevato che il traffico organico a siti non ottimizzati per la visualizzazione da device mobili è sceso del 10% nei primi mesi dopo il Mobilegeddon. Questo ha inciso anche sui budget marketing: il calo del traffico sui siti ha fatto salire i costi della spesa per la ricerca su mobile con un cost per click in aumento del 16% anno su anno mentre il tasso di click-through è sceso del 9% rispetto allo stesso periodo. In altre parole, le imprese hanno quindi pagato di più per ricevere meno traffico. Questo per dire che il costo conseguente all’avere un sito non responsive non è più giustificato.

Una pista ciclabile di 135 Km lungo il fiume Piave

Una pista ciclabile ad anello lunga 135 Km, che che percorre il ponte di Fener, lungo gli argini del Zenson, e attraversa la garzaia di Pederobba, le grave di Ciano, le distese di mamai dell’isola dei morti, il passo barche di Falzè, le straordinarie Fontane bianche, il vecchio approdo degli zattieri di Nervesa, le vecchie fornaci di Colfosco, le coltivazioni intensive nelle grave di Papadopoli, il porto fluviale veneziano di Lovadina, casa Parise a Ponte di Piave e le draghe e i nastri trasportatori di ghiaia abbandonati.

pista ciclabile piave

Il progetto, realizzato dal Consorzio Bim Piave, insieme agli Osservatori del paesaggio Medio Piave, Montello Piave e Colline dell’Alta Marca, dovrebbe partire entro il 2016 e terminare entro l’anno successivo.

Mi fa moltissimo piacere vedere come fenomeno del cicloturismo stia crescendo, al punto da indurre alla realizzazione di infrastrutture in grado anche di richiamare un flusso turistico, oltre a valorizzare un territorio stupendo dal punto di vista naturalistico. La posta inoltre si svilupperà interamente lungo sentieri, argini e strade ad uso agricolo, che già esistono: l’impatti ambientale sarà basso, tanto che il tracciato correrà sul fondo esistente: sterrato, erboso o ghiaioso. Al massimo ci saranno delle coperture di tout venant, prelevato direttamente sull’alveo. Punto di debolezza, secondo alcuni, è il fatto che l’intera pista corre su area golenale e dunque è soggetta alle bizze del fiume, che nel corso dei secoli sono state ricorrenti, e talvolta disastrose.

La nuova pista rappresenterà il naturale collegamento tra la Drava austriaca e l’Adriatico, tra la storica pista Dobbiaco-Lienz e la ciclabile Monaco-Venezia. Ed anche una sorta di tacito risarcimento allo stupro di cui il Piave è vittima da decenni: i prelievi a monte, con una rete di undici laghi artificiali creati nell’ultimo secolo e decine di centraline autorizzate, nonostante le proteste di comitati e cittadini; e la grande spoliazione legata all’attività dei «signori della ghiaia» che avevano trasformato il Piave nel bancomat dello sviluppo edilizio del Veneto, fino allo stop imposto dopo l’inchiesta dell’ex pretore d’assalto Francesco La Valle nel 1977.

Google ai Blogger: usate link “nofollow” se avete ricevuto un prodotto in omaggio

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Il messaggio, pubblicato sul blog di Webmaster Tool, è chiarissimo: i blogger che recensiscono sul loro blog un prodotto omaggio ricevuto da un’azienda dovrebbero stare attenti ad inserire il tag nofollow nel linkare l’azienda che ha inviato l’omaggio.
In dettaglio, in cosa consistono queste “best practices” utili ad evitare il rischio di incappare in una tanto temuta penalizzazione di Google?

  1. Se decidete di inserire un link al sito della società produttrice (oppure alla pagina Facebook, o all’azienda che lo commercializza, una pagina di recensioni di prodotti, un’app … qualsiasi link!), oppure dell’azienda che lo commercializza, dovete usare il tag rel=”nofollow”.
  2. Specificate che state scrivendo di quel prodotto perchè avete ricevuto un omaggio, in quanto “gli utenti vogliono sapere quando stanno visualizzando contenuti sponsorizzati, e talvolta vi sono precisi obblighi di legge a riguardo”.
  3. Create contenuti unici e interessanti, che diano valore. Dovete “fornire contenuti esclusivi e fornire risorse uniche create sulla base della vostra esperienza personale”.

Per chi non segue queste regole, Google annuncia sanzioni manuali. Perchè siamo arrivati fin qui? Semplice: una volta (prima del 2012) esisteva la pratica della link building, usata dai SEO per far scalare le posizioni nei motori di ricerca. Poi Google si è accorta che tale attività svolta allo scopo di manipolare le sue pagine di ricerca stava producendo dei danni alla qualità dei risultati, e questo poteva intaccare la credibilità di Google stessa. Arrivò quindi l’aggiornamento denominato Panda, nato per sanzionare chi non si comportava bene, inserendo link non spontanei, cioè da siti o network nati ad hoc. L’unica via per i SEO era quella di favorire i link spontanei (stiamo parlando di quelli che passano “link juice”, cioè senza rel=”nofollow”) da siti e blog dello stesso argomento. Google, con questa precisazione, ora vuole dire che l’invio di un prodotto omaggio esclude la possibilità che il link sia spontaneo. Obiettivo: evidentemente, abbattere questa ulteriore frontiera che produce una manipolazione delle pagine dei motori di ricerca.

Ma quanto è ragionevole pensare che i blogger siano in grado di capire questo problema, ed abbiamo gli strumenti tecnici per convertire i link in “nofollow”? E soprattutto, come farà Google ad intercettare questo comportamento? Sicuramente una grande quantità di blogger non hanno le competenze tecniche per capire cosa fare: probabilmente, alcune piattaforme (magari anche WordPress?) inizierà ad inserire di default link come nofollow, mentre ora non è un’impostazione standard. Ma, realisticamente, penso che l’obiettivo di Google sia quello di bloccare specifiche attività massive, perché è evidente che, a meno che l’attività non sia opportunamente spiegata e pubblicizzata, è impossibile per Google capire se un link è stato in qualche modo pagato dall’azienda, oppure è spontaneo.

Aggiornamento del 02 Maggio 2015
Una recente ricerca effettuata in Gran Bretagna riguardo il rispetto del codice di condotta e la regolamentazione delle pubblicità racconta che ben 6 professionisti su 10 non rispettano le norme, evitando di palesare – come dovrebbe essere fatto – la partnership, a pagamento, effettuata con il blog. Per mettere uno stop a questo fenomeno, ora anche Facebook scende in campo con l’obiettivo di cerca di regolamentare i contenuti brandizzati, cioè quelli che vedono inserito un prodotto di terze parti, sia questo un partner, una catena, uno sponsor. Ora, sarà obbligatorio inserire un tag all’azienda di cui si sta parlando, palesando la natura di post a pagamento. Il brand riceverà così una notifica e avrà modo di avere delle metriche sull’andamento del contenuto, potendo, addirittura, spingerlo tramite le Facebook Ads. Come dire, mettendoci la pezza trova comunque il modo di trarne un vantaggio economico. Chissà, l’obiettivo neppure tanto nascosto potrebbe essere quello di dimostrare che gli influencer funzionano meno delle sponsorizzazioni a pagamento.

Fare impresa per creare valori

«Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini». Lapidaria ma incontestabile, questa asserzione del filosofo francese Paul Ricoeur delinea uno dei rischi maggiori della società contemporanea. Da un lato, infatti, mai come oggi abbiamo a disposizione un paniere sterminato di informazioni e di dati attraverso la comunicazione digitale. Mai come ora la scienza, accompagnata dalla tecnologia, ci offre una strumentazione efficace nella ricerca fisica, medica, industriale. Mai come in questo tempo la finanza stende una rete, spesso impalpabile, avvolgendo e talora strangolando il nostro globo. Mai come ai nostri giorni le distanze s’accorciano e persino svaniscono, permettendo un rimescolamento di etnie e culture.

D’altro lato, però, a questa indubbia e pur importante “bulimia” operativa corrisponde un’anoressia di valori, di interiorità, di significato, di etica. La massa delle risposte strumentali non riesce a evadere le domande esistenziali che, purtroppo, si affievoliscono nelle coscienze fino a estinguersi. Un altro filosofo, il danese Soeren Kierkegaard, già nell’Ottocento rappresentava simbolicamente questa situazione: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani». L’apparente ottimismo versato a piene mani dalla scienza e dalla comunicazione di massa non riesce, comunque, a nascondere il groviglio di contraddizioni in cui ci dibattiamo. Il sudario di sangue delle guerre, la disperazione degli esodi di massa, la devastazione ambientale, il colossale divario tra ricchi e poveri, l’anelito dei popoli affamati, le ingiustizie sociali sempre più marcate, l’impennata della disoccupazione, gli squilibri culturali, i fondamentalismi religiosi continuano, infatti, ad artigliare le coscienze e le esistenze personali e comunitarie, distratte e superficiali, e riescono a interpellare tutta la piramide della società, dal vertice politico ed economico fino alla base popolare. Per questo l’impresa italiana ha voluto consacrare una giornata di studio e di testimonianza nel tentativo di risvegliare e rinvigorire l’impegno comune ad opporsi a questa turbolenza che agita il nostro pianeta sempre più globalizzato eppure altrettanto frazionato. Gli imperativi per edificare un ethos comune che affronti questo orizzonte complesso e complicato sono quelli di sempre ma devono essere declinati con nuovi accenti, liberandoli dagli stereotipi vagamente moraleggianti: la giustizia, la libertà, la dignità della persona, la solidarietà, la conoscenza e l’istruzione, la responsabilità e i diritti individuali e sociali, il lavoro, la fede autentica e la morale. Queste e altre parole di vita sono state annodate sotto un denominatore comune che ha dato il titolo al convegno, il fare insieme.

Ora, questo verbo, che in quasi tutte le civiltà è il più generico per classificare ogni tipologia di azione, nella nostra lingua è basato su una radice indoeuropea che significa “mettere, fondare, posare” e rimanda quindi a una costruzione. Il verbo “fare” è, poi, contenuto in molti altri termini italiani, tra i quali brillano l’“affetto” e il “difetto”. Sono un po’ i due volti estremi del “fare”, quello luminoso e appassionato della dedizione e quello del limite e dell’imperfezione: le mani che operano possono, infatti, stringersi e procedere “insieme”, ma possono anche rinchiudersi a pugni. Ecco perché è necessario coniugare il verbo “fare” con l’avverbio “insieme” che ha etimologicamente alla base l’aggettivo “simile”. È, quindi, la riscoperta della comune umanità e fraternità, l’essere tutti “figli di Adamo”, prima che essere segnati da altri connotati etnici, storici, culturali e sociali.
Dobbiamo ribadire, come suggeriva un altro filosofo francese, Emmanuel Lévinas, l’importanza del volto, dello sguardo reciproco, del dialogo. Visto da lontano un altro può sembrarci una bestia o un predatore; di fronte rivela, invece, quella costante umanità che tutti ci unisce per cui, come dice un proverbio orientale, il boia non guarda mai negli occhi la sua vittima. Ora, nel “fare”, un aspetto capitale è certamente quello del lavoro. Lo afferma in modo radicale la stessa Bibbia, che è pur sempre “il grande codice” della nostra civiltà occidentale: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2,15).

Certo, come diceva Pavese, «lavorare stanca»: non per nulla il latino labor, da cui deriva il nostro “lavoro”, significa “fatica” e “dolore”, e in francese e spagnolo il “lavoro” è travail e trabajo. Tuttavia l’uomo che è inerte o paralizzato o disoccupato sente una ferita nell’anima. Per questo “fare insieme” è costruire un mondo diverso nella giustizia e nella fraternità ma è anche creare concretamente le condizioni perché tutti possano operare con le loro mani e la mente, “coltivare e custodire” il mondo e sviluppare la loro stessa esistenza personale e sociale. Per questo affidiamo l’ultima considerazione a Primo Levi, uno scrittore che al lavoro operaio ha dedicato un romanzo dal titolo emblematico, La chiave a stella (1978), e che così ci esorta: «Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione della felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono».

Articolo di Gianfranco Ravasi, in vista del seminario di Confindustria «Fare insieme» in programma per venerdì 26 febbraio 2016.

Internet ci rende peggiori?

In un recente articolo apparso sul New York Times, Farhad Manjoo scrive che “I toni su Internet sono quasi sempre sopra le righe, ma quest’anno lo sono stati più del solito: estremisti di ogni tipo riescono a spiccare nel rumore di fondo e ottenere più visibilità a scapito di chi ha toni più pacati e ragionevoli, rendendo di fatto Internet un posto inospitale”. La tesi, ripresa da Il Post, è che parte della sovreccitazione online sia dovuta ai tempi in cui viviamo e alle notizie che riceviamo, ormai quotidianamente, su attacchi terroristici, uccisioni di massa, sparatorie, razzismo, proteste e violenze di ogni tipo da tutto il mondo. Le informazioni su queste cose vengono condivise rapidamente sui social network e commentate ancora più velocemente, spesso senza pensarci più di tanto o avere un’idea precisa di quali siano le cause e le circostanze in cui si sono verificati determinati fatti. Manjoo scrive che i social network contribuiscono ad alimentare un circolo vizioso di azione e reazione: “La reazione di Internet a una determinata situazione diventa parte e seguito della storia, così da intrappolare i media in una escalation, in un giro infinito di 140 caratteri, di reazioni d’impulso e istantanee”.
Secondo Carr Nicholas, autore del libro “Internet ci rende stupidi?“, la rete rende più rapido il lavoro e più stimolante il tempo libero ma, mentre usiamo a piene mani i suoi vantaggi, stiamo sacrificando la nostra capacità di pensare in modo approfondito. Abituati a scorrere freneticamente dati tratti dalle fonti più disparate, siamo diventati tutti più superficiali.
Eppure John Perry Barlow, uno dei più famosi attivisti per la libertà della rete, scrisse nel 1996 che “con maggiori capacità di comunicazione e la possibilità di raggiungere direttamente gli individui si genera un tipo di comunicazione migliore, più gentile e amichevole”.
Scrivevo in un post esattamemte un anno fa che “l’internet non salverà mai il mondo, per il semplice fatto che l’internet siamo noi, la rete siamo noi. Dobbiamo superare il “vecchio” dualismo tra reale e digitale. Ogni tecnologia incorpora una cultura ed è a quella che reagiamo bene o male. Non è insomma la tecnologia il problema, ma come al solito siamo noi.”
Non esiste il “popolo della rete”, esistiamo noi ed esiste la responsabilità per le nostre azioni. Dire che internet sta mettendo in pericolo la nostra capacità di pensare in modo approfondito è sbagliato, perchè internet non fa altro che rispondere alle nostre azioni. Come dire che internet sta mettendo in pericolo la nostra capacità di incontrarsi di persona perchè ci relazioniamo sempre di più on line. Ciò che ci manca è piuttosto una sorta di educazione al vivere digitale, che ci metta in condizione di trovare nel digitale quello che può arricchire la loro vita: un’educazione civica e del gusto alla vita in rete.
Internet non ci rende peggiori, è che mostriamo in internet la nostra parte peggiore. Facciamocene una ragione.

Stiamo andando verso il marketing esistenziale

Lo scenario contemporaneo entro cui si sta muovendo colui il quale fino a poco tempo fa veniva etichettato consumatore, è oggi per molti caratterizzato da una buona dose di incomprensibilità.
All’interno dei mondi del marketing e della comunicazione, che hanno sempre viaggiato paralleli, c’è l’impressione che tutto sia stato già provato. Il consumatore è sempre meno prevedibile, è ormai diventato infedele e la comunicazione di marca è di nuovo costretta ad un cambio di paradigma che si basa sull’individuazione di nuove narrazioni che rispondano a veri criteri di autenticità per i diversi profili di pubblico. A partire dagli anni novanta, il consumatore è diventato sempre più complesso e meno lineare nei suoi percorsi di consumo: è diventato più sensibile alle novità di mercato, più esplorativo e quindi infedele, più individualista e con un maggiore bisogno di rinnovarsi. Assistiamo alla crisi della segmentazione del consumatore, e perciò non rimane altra strada che considerarlo un individuo sempre più informato e che sa di poter disporre nei confronti dei marchi di un’influenza che in passato non aveva. Lo stesso individuo è ora in grado di mettere seriamente in crisi l’intero mondo della pubblicità on line: assistiamo ad una crescita esponenziale dell’utilizzo degli “ad block“, ovvero strumento che bloccano ogni forma di pubblicità.

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Ma allora come possono fare le marche a raccontare il loro prodotto? Il punto della questione, che mi sta davvero a cuore, è che nel campo del marketing e della comunicazione produciamo quotidianamente strategie che mettono in campo esperienze superficiali, che mettono al centro un consumatore prototipico che è alla ricerca di sensazioni ludiche, di entusiasmo, di cose stucchevoli. Inseguiamo cioè l’inganno, e la cosa più sconvolgente è che il consumatore questo lo sa, ma cade consapevolmente nella trappola.

Trovo veramente illuminante a questo proposito le parole di Stefano Gnasso, (in Existential Marketing, scritto con Paolo Iabichino) quando sostiene che il marketing debba restituire esperienze che siano pregne di senso dal punto di vista collettivo: “il prodotto o servizio deve sapere rispondere a una richiesta di senso che orienti e giustifichi l’agire quotidiano, sradicandolo dalla concezione individuale per inserirlo e radicarlo all’interno di un processo sociale che a sua volta sia in grado di consolidare un’identità frammentaria e contraddittoria”.

Secondo lui bisogna, in parole povere – ma è una cosa spaventosa -, pensare in maniera liminale, ossia creando dei progetti che siano “in grado di trasformare gli uomini e le comunità”.
Jonathan Gottschall è arrivato a dimostrare che l’evoluzione della specie umana è strettamente correlata alla sua innata capacità di raccontare e ascoltare storie: l’uomo è un animale narrativo e adesso ha bisogno di nuove morali. Ecco perchè sarà necessario ripartire da ciò che interessa veramente alle persone.
Il grande regista Oliver Stone, intervenuto allo Iab Form di Milano, ha iniziato il suo discorso con una frase bellisisma, che mi è subito entrata nel cuore.

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“Devi avere un piano da seguire e devi credere in ciò che fai per fare un buon prodotto”. Per ottenere il consenso, oggi vitale per ottenere visibilità, è necessario individuare contenuti che, trasformati in narrazione, sopperiscano ad un bisogno di comunità: bisogna pensare in termini di vantaggio proposto alle persone. C’è ora un grande bisogno di umanizzare la comunicazione, parlando delle persone e delle loro storie, che non saranno necessariamente stucchevoli. Rafforzeremo l’idea che ciò che ci fa vivere bene non sono le vittorie, ma l’impegno e la determinazione a fare bene: avremo guadagnato anche la capacità ad imparare dagli errori, e saremo di ispirazione per chi si sente imperfetto, per chi ha paura di non riuscire a fare tutto, per chi è umano e cerca un altro umano.

Lo scemo del villaggio di Umberto Eco

“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. (Fonte: Ansa)

Questa la dichiarazione fatta ieri a Torino da Umberto Eco, che, come sappiamo, è laureato in Comunicazione e Cultura dei media. E non è una novità: più volte ha pesantemente criticato i social media per il ruolo che assumono nell’interpretare la contemporaneità. I social media, si sa, sono nelle mani di chi li utilizza: tutti hanno voce, anche gli imbecilli che farebbero bene a non fiatare. Ma faccio fatica a capire perchè questo straordinario personaggio non spenda qualche parola anche per parlare dello straordinario potere che ci hanno dato. I social media sono l’espressione di democrazia, permettono a chiunque di mostrare ciò che è nella realtà. Si, perchè la finzione non funziona, viene subito smascherata. E uno che ce lo dimostra veramente è Gianni Morandi. È di qualche giorno fa la finta polemica innescata da Selvaggia Lucarelli, che ha provato ad intaccare la sua genuinità affermando che non è vero che lui stesso gestisce i canali social, ma c’è “dietro” un social media manager. Ma lui ha saputo ribattere che qualche volta viene aiutato da sua moglie nella gestione dei canali. Perchè i social media non sono il regno della bufala, fanno uscire quello che siamo nella realtà e, se provi a mentire, si vede.

Facebook con il suo nuovo motore di ricerca metterà in crisi Google?

Facebook introduce il nuovo motore di ricerca che assomiglia tanto a Google. Cosa dovremmo aspettarci?

Facebook ha reso disponibile da oggi negli Stati Uniti (e ben presto in tutto il mondo) una nuova funzionalità di ricerca, per permettere di trovare più facilmente le storie di cui stanno parlando maggiormente i nostri amici o le pagine a cui siamo collegati. La vecchia funzione di ricerca permetteva di trovare utenti, pagine o luoghi: ora, quando si inserirà una parola nel campo di ricerca, Facebook proporrà come primi risultati argomenti che contengono la parola digitata e su cui sono stati scritti molti post di recente.

Su Facebook vengono compiuti circa 1,5 miliardi di ricerche ogni giorno e sono contenuti più di 2 mila miliardi di post. Un enorme bacino di informazioni, quindi, che mira ad indebolire la posizione di Google come strumento di ricerca delle informazioni, ma basato su ciò che dicono le persone che sono collegate a noi.

È molto interessante seguire questa guerra in corso tra i due colossi: a dire il vero, qualche anno fa era stata proprio Google a sfidare Facebook su questo campo, mettendo sul motore di ricerca il concetto di authorship delle informazioni collegata al social Google+. Secondo le intenzioni di Google, le notizie diffuse o riportate dalle nostre cerchie di amici avrebbero avuto una maggiore visibilità nelle nostre ricerche.
Ma questo social non è mai decollato, tanto che ora è stato praticamente abbandonato da Google, mentre in tempi recenti feed di Twitter hanno ricominciato a comparire nelle pagine dei risultati di Google.
D’altra parte, Google sta guardando più in là, soprattutto dopo la nascita di Alphabet pare molto più concentrata sulle nuove tecnologie.