- Requiem (K626) di W.A.Mozart
- Concerto n.2 per violino e orchestra di S.Prokofiev
- Sinfonia n. 1 in do minore per orchestra op. 68 di Brahms
- Concerto per pianoforte e orchestra K488 di W.A.Mozart
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Categoria: Blog
Climbing – digressione sul significato dell’arrampicata
Arrampicata. Già la parola può essere intesa in vari modi. Ultimamente mi piace dire che imparare ad arrampicare è come imparare a camminare, solo che purtroppo nasciamo in un mondo orizzontale e quindi con poche occasioni di muoversi in verticale. Poi il concetto varia da persona a persona. Mi diverte pensare per esempio cosa crede mia madre quando le dico che vado ad arrampicare, e so di gente che ai genitori si limita dire “vado in montagna …”. A proposito di montagna, da buon frequentatore del cai ho sentito gente definirsi “alpinista” perchè ogni tanto va in un rifugio a mangiare polenta e capriolo. Figuriamoci, a questi basterà fare le scale di casa d’un fiato per affermarsi dei climber alla pari di Manolo.
Ho poi visto vecchie generazioni mettere le staffe a sportler per andare su, in camicia di flanella e scarponi chiodati. Gente anche in gamba, che in gioventù era forte ed ha aperto parecchie vie: ma chi sa cosa ne pensano dell’arrampicata. Sicuramente il concetto ha subito un’enorme evoluzione, e al giorno d’oggi il significato è del tutto diverso da quello che è nato anche dagli anni 80, con l’introduzione della scarpetta da arrampicata.
Io, veramente, non so se arrampico. Sicuramente non tutto mi è chiaro dell’arrampicata sportiva, mentre so che in alpinismo arrampicata significa seguire un itinerario per arrivare da qualche parte (è più semplice). Mi è stato insegnato da Simone che vuol dire mettersi un gioco. Le regole sono state decise e vanno rispettate, sennò è inutile giocare. Quindi vuol dire misurarsi con dei limiti che ti sei messo davanti. Arrampicare significa andare ad esplorare questi limiti. Si, può essere. Questo mi piace. Grazie per avermelo insegnato, Simone. Spero anche di poterlo mettere in pratica: quel 6b forse avrei poturo chiuderlo, ma arrivare in alto e vedere a 20 centimetri dei manettoni e non prenderli, perchè non fanno parte della regola è anche difficile da capire. Spero di arrivarci, cercando di pensare alla catena non come un posto dove arrivare, ma alla via come ad un gioco che ha delle regola da risperttare. Come dire, la meta è il viaggio. Ci sono quasi?
Simone Tosi -istruttore di arrampicata, non ché mio maestro – ha scritto il 9 marzo 2009 alle 12.11
Beh la via è la meta direi che si avvicina moltissimo se nn,addirittura,centra in pieno il bersaglio.Potremmo stare qua a consumare la tastiera…Di sicuro mi sento di poter dire che nn è arrivare in catena lo scopo,ma +tst il come ci si arriva; in fondo nn è poi tnt diverso dall’andare in rifugio a piedi +tst che in auto,moto,elicottero,motoslitta …mi spiego? I
nsomma si fa meno fatica con l’auto molte volte è possibile farlo…ma nn ti sogneresti di farlo se camminando su di 1 sentiero tu potessi raggiungere la stessa meta…scegli un “disagio” volontariamente….nn prendere i manettoni 20 cm + in la è la stss cosa,la stss scelta… applicata in 1 altro ambito.
Certamente la falesia nn può dare qll senso di maestosità di 1 via in montagna,il senso del viaggio e dell’avventura…eppure è un viaggio dentro di noi dentro le ns paure,scelte,convinzioni,alla ricerca di qcs magari del ns limite xchè la falesia ce lo permette e la montagna no.E’ un gioco semiserio ( guai se lo prendessimo trpp seriamente-già Grassi lo diceva,figuriamoci-), che possiamo condividere solo con le persone che ci trasmettono positività ( provate a scalre con chi nn vi piace…).
Alla fine ,x me , arrampicare è sentirmi libero pur se vincolato da regole…come nella vita dove essere liberi nn significa poter fare TTT quel che si vuole( come spss persone superficiali credono) ma scegliere se giocare o meno …poi le regole si possono seguire o meno ,senza però poi pretendere
di aver fatto qst o qll via….in fondo se c’è una strada che arriva al rifugio è giusto che chi preferisce possa arrivarci in auto senza che venga criticato x qst….ma difficilmente la mia metà è il rifugio +tst ogni singolo passo, ogni pensiero che accompagna qll passo,ogni odore del bosco,ogni tracci a sono la meta che voglio raggiungere.
Ogni cm dei 30 mt di una via sono il mio motivo.
Via Dibona, torre grande Falzarego (20 giugno 2009)
Ci sono decisioni nella vita che non possono essere rimandate
– brown, quando vuoi
sopra di me incombe l’ignoto, roccia gialla ovunque, roccia sopra la testa, sotto i piedi e attaccata alle dita. Un ultimo sguardo alla relazione. Ok, due chiodi a sinistra, poi su, poi ci si sposta un poco sulla destra …
– chiodo! sto seguendo la linea corretta
un’occhiata al cielo plumbeo che lascia scivolare qua e là qualche favilla di neve. Ora del giorno indefinita, freddo, ben presto rimango solo, unica presenza viva la corda che scivola verso il basso
– ecco la lama!
l’afferro, la stritolo ma non è abbastanza perchè le dita sono rese insensibili. Inizio a prendere condifenza, a sentire dentro di meuna spinta verso l’alto. Afferro, mi comprimo e distendo.
– da quanto salgo senza proteggere? troppo. deve esserci una protezione qui. chiodi neppure l’ombra …. ma questo buco pare fatto apposta per metterci un friend …
mi rilasso un attimo. credo che il più sia fatto, ma non devo perdere la concentrazione.
– quanto sono salito? un 25 metri
riparto spostandomi un po all’esterno del fessurone. qui molla …. poi all’improvviso cordini attaccati a due chiodi
– sono già all’A0? guardo meglio … c’è la sosta! mmmmmm ma che sosta. vebbè la preparo. Il solito molla tutto mi esce dalla bocca con la voce rotta dall’emozione.
recupero recupero recupero e di tanto in tanto scatto.
stavolta sono impaziente di ripartire. Ricontrollo la sosta e l’assicurazione.
– vado
ora il passaggio mi pare più macchinoso per la presenza della sosta. preferisco tenere il secondo cordino prima di mettermi comodo.
– è fatta, inizio ad urlare dentro. ora è quarto. quarto!
esco. la roccia declina, si distende, diventa pianeggiante. sopra di me il cielo, che ha smesso di piangere gelato.
in pochi minuti mi ritrovo a mangiare la mela portata in zaino.
Via Costantini Ghedina, Tofana di Rozes
Era il 19 Agosto 2008. Quattro amici (io, Ado, Giò e Stefano) partirono con l’intenzione di percorrere il secondo pilastro della parete sud della Tofana di Rozes, per la via aperta da Costantini e Ghedina il 29 settembre 1946. Furono 17 lunghezze di corda belle e intense, che ci permisero di raggiungere la sommità a quota 2820 m. dopo circa sette ore e mezza trascorse parete.
Ricordo ancora come fosse oggi la felicità al termine della via: una bella giornata in compagnia di tre amici. Rientrando per il sentiero un po’ alla volta materializzavo l’idea di aver compiuto qualcosa di grande. Gli escursionisti ci guardavano come extraterrestri, qualcuno ci fermò chiedendoci una foto insieme. “Una foto con dei veri alpinisti, che emozione”, ci disse.
I trucchi per vendere on line
Si sta avvicinando la fine dell’anno. Si, lo so, il 2016 è stato l’anno del web mobile ma anche – questo l’ho sentito proprio – l’anno dell’e-commerce. Mi sono arrivate davvero tante richieste da parte di persone che avevano deciso di realizzare un e-commerce, e mi chiedevano di arrivare subito alla fine della storia, cioè quali fossero i trucchi per vendere on-line.
Tutti i dati a disposizione di dicono infatti che l’e-commerce è una realtà, non è il futuro, sia in Italia che all’estero. Non voglio qui iniziare a snocciolare dati, basta solo andare al report dello IAB Forum di quest’anno, appuntamento a cui non manco da qualche anno. Allora, perchè – mi chiedono – sono ancora così poche le aziende italiane che vendono on-line? Io non lo so, anzi non credo, che siano davvero poche: secondo un rapporto di UnionCamere, negli ultimi sei anni sono cresciute in media del 25%, più o meno del 150%. Certo, vi sono enormi differenze tra un settore e l’altro, e alla base il fatto che i noti marketplace raccolgono la maggior parte della fetta di mercato. Ma comunque ci troviamo in uno scenario in cui il giro d’affari che in Italia nel 2016 è cresciuto del 18% e sfiora i 20 miliardi di euro, anche se siamo ancora al 5% del retail (all’estero le percentuali raddoppiano).
Allora, mi dicono, dimmi cosa devo fare per vendere! Svelami il trucco, o tu che sei il mago del computer. E allora io inizio a fare domande, anzichè dare risposte. Cosa vendi? A che prezzo (rispetto ai tuoi competitor), il tuo prodotto si presta ad essere venduto on-line? Con quali vantaggi per chi compra? Accanto a queste domande, è importante capire quanto quanto valore ha il brand e come viene percepito, prima di pensare a mettersi a vendere. Arriviamo subito a parlare di identità dell’azienda e comunicazione del prodotto. Tutte cose che ovviamente costano tempo e fatica.
In realtà, quando abbiamo tutte queste cose, possiamo veramente essere pronti per vendere on-line. E allora i trucchi saranno ovvi, direi quasi banali. Posizionamento naturale nei motori di ricerca, posizionamento a pagamento – attraverso campagne di advertising mirate -, promozione attraverso social media, spesso anche con email marketing, sono tutti trucchi per portare al successo. Tuttavia, per farli rendere bene servirà una buona capacità di leggere il consumatore attraverso i dati – i big data – e di condensarli in azioni di investimento concrete e misurabili.
Ciclabile delle Dolomiti, al via il ticket unico
Un unico ticket treno + bus e bicicletta per accedere all’anello ciclabile delle Dolomiti da Venezia, Padova e Treviso. Ora anche tramite un’app mobile.
Destinazione: le piste ciclabili delle Dolomiti, la Calalzo-Cortina e la Autonzo-Misurina. I treni quotidiani provenienti da Conegliano e da Belluno (tutti Minuetto) saranno attrezzati con sette posti per le biciclette e a Calalzo avranno la coincidenza con il servizio bus (una corsa al mattino e una al pomeriggio) attrezzato per il trasporto bici verso l’anello delle Dolomiti. Al sabato e nei festivi le corse ferroviarie dirette da Venezia, Vicenza e Padova saranno in coincidenza con due servizi bus, attrezzati anche con wi-fi a bordo, per ciascun senso dell’anello e saranno muniti di carrello per le bike. Il treno dalla laguna disporrà di 60 posti per biciclette (23 saranno prenotabili) mentre quello da Vicenza ne avrà sette tutti soggetti a prenotazione. I mezzi di Dolomitibus, invece, potranno portare fino a 30 bici.
I bus saranno in coincidenza a Misurina con le corse per le Tre Cime di Lavaredo e a Cortina con quelle per Dobbiaco. Questi mezzi saranno disposizione sia dei bikers sia di chi vuole andare a vedere le meraviglie dolomitiche.
Per chi non ha una bici, è attivo il servizio di noleggio bici, normali o elettriche. I punti di noleggio sono localizzati alla stazione ferroviaria di Dobbiaco, al ristorante chalet Cimabanche, nelle vie Ria de Zeto e Marconi a Cortina, in via Toffoli a Calalzo, in via Pause (località Taiarezze) ad Auronzo e al frontelago di Misurina.
Invisibili, un libro sui senza tetto per rendere visibile chi non lo è
Invisibili è un libro che racconta le storie di dieci senza tetto, raccontate da altrettanti autori. Attraverso il ricavato delle vendite, verranno realizzati degli orti sociali per offrire agli invisibili un’occasione di riscatto sociale. L’editore è il Centro della Famiglia di Treviso, organizzazione che nella città svolge il ruolo di formazione e sostegno alla famiglia. Il progetto è stato reso possibile grazie alla collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio di Treviso, impegnata nel dare aiuto alle persone in difficoltà: principalmente anziani, senza tetto e profughi.
Invisibili è un libro tutt’altro che facile. Siamo vicini al Natale, occasione che facciamo tutti nostra per sentirci più buoni. E invece questo libro mette a nudo alcune cose di noi, che nascondiamo – o ignoriamo, dipende dalla persona – molto volentieri perchè scomode. Chi vive un’esistenza normale, chi insomma è impegnato la maggior parte del suo tempo a lavorare, e usa i media comodi per leggere il mondo – i tiggì per intenderci – è troppo impegnato per interessarsi all’altro. Chi sono questi senza tetto? Proprio perchè invisibili ai più, è opinione comune che siano persone che scelgono di andare a vivere in strada: persone che delinquono, spacciano e fanno uso di droghe. Tutte cose dalle quali le brave persone stanno alla larga, e quindi scansano ogni tipo di contatto. Per strada, basta cambiare marciapiede. Ogni tanto si leggono articoli di giornale, come questo: il vero dramma è il fatto che il suicidio del senza tetto sia avvenuto in mezzo alla gente in una zona così centrale della città, che tutti abbiano visto questa persona che vagava con il suo trolley, – da tempo in cura per depressione – sottolinea l’articolo. Non c’era veramente più niente da fare, poverino. È inoltre opinione comune che, alle brave persone in difficoltà, le istituzioni vengano in aiuto offrendo tutto ciò di cui hanno bisogno: pensiamo tutto ciò che ci è comodo e non disturba.
E invece ci pensano le storie raccolte in questo libro, a dirti che i senza tetto sono come te, che può capitare a chiunque di trovarsi nella loro stessa situazione.
“Questo mondo adora solo l’idolo della ricchezza e del consumo”
scrive nell’introduzione Moni Ovadia, scrittore, regista e attore teatrale a cui dobbiamo l’introduzione del libro. I senza tetto sono persone come noi, ma che hanno perso tutto: professionisti, operai ma anche dirigenti d’azienda, che hanno subito la perdita dal lavoro magari a causa di una malattia, accompagnata poi alla perdita degli affetti, alla rottura con la famiglia. Il lavoro è un asse portante delle persone, perchè dà un senso alla vita, aiuta le persone ad avere degli obiettivi. Chi lo perde subisce un corto circuito nella propria testa, l’inizio di uno scivolamento senza fine verso il basso. Ma questo potrebbe essere anche il nostro destino. Perdere le proprie cose, la casa in cui viviamo, strappa di dosso la dignità. Molti cercano rifugio nella stazione ferroviaria, luogo di partenze e arrivi – per fortuna anche riscaldato – che aiuta a rendersi invisibili, a fare in modo di non essere notati dagli altri. Perchè appunto l’invisibilità è una condizione che rende più accettabile la loro condizione. La stazione è poi un luogo in cui si possono usare i bagni pubblici per rendersi presentabili, facendo la doccia versandosi acqua sotto ai vestiti, con una bottiglietta di plastica. Perdere tutto è vissuto come la peggiore delle umiliazioni, le possibili conseguenze fanno una paura tremenda. In alcune delle storie, a non avere niente è il profugo, arrivato nel nostro paese per fuggire da morte e disperazione: ma iniziare dal nulla non è per niente facile, soprattutto nella nostra società in cui è così diffusa la paura e la diffidenza per chi è diverso.
Il secondo motivo per cui questo libro fa male è una conseguenza di come è raccontata l’attività svolta dai volontari della Comunità di Sant’Egidio. Queste persone, apparentemente come noi, donano se stesse per dare sostegno a chi ha bisogno di aiuto: dando ospitalità a casa propria, preoccupandosi ad una ad una di queste persone, che da tempo non hanno nessun altro a dare loro importanza. Mi torna alla mente una frase del regista Wim Wenders:
“Gli angeli del nostro tempo sono tutti coloro che si interessando agli altri prima di interessarsi a se stessi”
Ma le storie raccontate ci indicano che non sempre queste vite hanno preso un binario a senso unico. La differenza la fa la solidarietà delle persone che conducono una vita nella normalità. Chi ha tutte queste cose, una famiglia, un lavoro, si troverà a pensare alle loro storie ogni qualvolta riceve l’abbraccio di un figlio, ogni qualvolta entrerà in una doccia calda. Tutto ciò farà sicuramente male, ed è un invito esplicito a fare qualcosa, un atto di gratitudine nei confronti della nostra condizione di normalità, in grado di restituire a ciò che facciamo nella nostra quotidianità un senso più elevato.
Ora le persone chiedono la verità, ed è la fine per la pubblicità
Nel marketing, guardando all’evoluzione storica, sono diventati di moda diversi termini, coniati di volta in volta per inventare qualcosa di nuovo che potesse catturare l’attenzione del consumatore: e io ho vissuto in pieno i tempi in cui gli spot passavano a ritmo martellante nelle tv sempre accese, e la gente usciva di casa a comprare. Il marketing emozionale ha lasciato posto al marketing esperienziale, che pareva sussurrare ad un orecchio: “prova questo prodotto fantastico, ti farò sentire veramente importante …”. In tempi più recenti, siamo passati al viral e poi al guerrilla marketing, per poi approdare al native e al misterioso programmatic advertising…
Ora ci troviamo in un momento che secondo me è bellissimo, e poetico: dopo che tutto è stato provato, dopo che la crisi ha sanzionato i mercati, ci si è convinti che non serve provare di tutto per convincere le persone ad acquistare, se sappiamo spiegare bene cosa facciamo e perchè lo facciamo, se siamo in grado di farci scegliere grazie ai perchè del nostro stare sul mercato.
Testimoniare la nostra presenza, piuttosto che affannarsi a trovare giustificazioni. Non so se a qualcuno questa affermazione sembrerà familiare: è niente di meno che una citazione del Vangelo San Luca 21, 5-19:
Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.
Si dice che oggi ci sia una grande voglia di verità in giro. Alle aziende, come alle persone viene chiesto di essere autentiche, di essere testimoni di coerenza. Lasciamo da parte per un momento il perchè si è arrivati a questo, di come il web prima e i social media poi abbiano innescato questo meccanismo di non ritorno. Gustiamoci questo momento. Il termine ora in voga è storytelling: uno dei pochi casi in cui non possiamo usare l’italiano che suonerebbe come “raccontare una storia”. Lo storytelling è infatti comunicare attraverso un racconto, che non è una bella storia: il consumatore non si farà più incantare da alcuna furbizia narrativa, troppo in overloading e impegnato in multitasking su più device, con buona pace per chi prova a costruirgli intorno un customer journey.
Non è un caso che anche la multinazionale Coca Cola abbia in tempi recenti rinunciato alla narrativa della felicità (“Open Happiness”, era lo slogan usato ovunque) per abbracciare un meno prosaico “Taste the feeling” e salutare così il ritorno all’essenzialità del prodotto. Oggi i social network hanno schiuso le porte dei palazzi di vetro e la relazione non può più essere mediata dalla retorica dell’advertising. C’è un bisogno di autenticità. Le persone chiedono alle aziende un solido e inattaccabile bagaglio valoriale. Ed è per questo che persone autentiche come Mario Cucinelli hanno così tanto successo: ora devi essere testimone di solidi valori, solo così le aziende possono essere scelte per essere parte della nostra identità. Certo, sarà necessario usare un bagaglio valoriale condivisibile: nei giorno scorsi, per esempio, ho pensato alla vicenda sull’olio di palma. Anche dopo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sancito la sua pericolosità in quanto cancerogeno, la Ferrero ha avviato una contro campagna milionaria per difendere il prodotto, e sui social continuano a prevalere gli entusiasti, non disposti a rivedere le loro abitudini alimentari. In questo caso, l’amore per il brand supera ogni considerazione razionale (ma è un caso particolare). Le persone seguono la pancia prima della testa, mettendo in gioco ciò che riconoscono. A questo si deve, almeno in parte, il successo di Trump, che conosce molto bene come “incantare” la folla, da bravo conduttore televisivo. Ma questo tipo di approccio alla comunicazione funziona ancora per chi non ha gli strumenti per leggere il suo modo, per capire che agisce da affabulatore. Per le categorie di persone più vulnerabili, è ancora l’Organizzazione Mondiale per la Sanità a mobilitarsi, dichiarando che “gli Stati devono intervenire perché hanno il dovere di proteggere i bambini dal marketing digitale di prodotti squilibrati nutrizionalmente e dannosi per la salute (troppo ricchi, appunto, di sale, zucchero, grassi)”. Non è solo una raccomandazione, ma una precisa richiesta di regole che impongano alle piattaforme private di rimuovere la pubblicità degli alimenti considerati a rischio della salute dei più piccoli.
Per fortuna, la fetta di persone che conoscono i meccanismi di inganno della pubblicità è terribilmente in crescita, al punto tale che l’inganno è diventato poco conveniente. Una parte sostanziosa degli introiti pubblicitari on line deriva ancora dalla diffusione di notizie false: ma sia Google che Facebook stanno prendendo delle serie contromisure per abbattere il problema. Non con la censura, attività che è da sempre estranea allo stesso concetto di web, ma bloccando la pubblicità (e quindi gli introiti pubblicitari) alle notizie false, costruite con l’unico scopo di generare click. La notizia arriva proprio nel momento in cui si discute di come il recente risultato elettorale negli Stati Uniti possa essere stato condizionato dalle notizie false. Kaveh Waddell scrive per Internazionale che “Molto di quello che si trova su Facebook è falso. La cosa non dovrebbe sorprendere perché molto di quello che si trova su internet è falso, e Facebook è un posto in cui le persone condividono quello che vedono, leggono o pensano.”. Ma questa volta Google e Facebook sono seriamente intenzionati a venire incontro al bisogno di verità delle persone, e sono al lavoro per trovare contromisure efficaci. Solo Facebook, che è una “nazione” fatta da 1,8 miliardi di utenti nel mondo (150 milioni nei soli Stati Uniti) fornisce la «dieta» quotidiana di informazioni politiche a un americano adulto su due. Mi piace pensare che i due colossi del web non stiano facendo tutto questo con l’unico scopo di fare del bene delle persone – lo vorrei pensare, questo sì – ma perchè sanno che questo fenomeno produrrebbe presto uno screditamento di questi media, al punto tale da far migrare l’attenzione delle persone verso altri luoghi in cui regna la verità. Gerard Bronner afferma che “tendiamo a cercare non le informazioni che migliorano la nostra conoscenza, ma quelle che confermano le convinzioni che abbiamo già. Crediamo perchè abbiamo voglia di credere”. È in gioco il concetto stesso di democrazia: come andrà il mondo è nelle mani degli indecisi, quelli che percepiscono la complessità del mondo e lo mettono in discussione con spirito critico. Per questo dobbiamo essere fermamente convinti che la verità salverà il mondo.
Ringrazio Paolo Iabichino, che considero un mio guru della comunicazione, per essere stato ispirazione per queste parole.
L’essenziale
Questo è il post che non ho mai scritto. E non so se mai lo farò.
L’essenziale è per me una condizione necessario per sentirsi bene, senza scomodare altre parole come felicità. Durante la nostra crescita, siamo abituati a passare gran parte del tempo riempiendo degli spazi, poi – ad un certo punto – il vaso è pieno e capiamo che è ora di iniziare a togliere. Arrivare all’essenziale rimane un lungo e doloroso processo, come quello di uno scultore che togliendo pezzi al blocco di marmo svela l’opera d’arte che c’era già, nascosta in mezzo a tanti altri frammenti di pietra.
Al centro la relazione con il cliente
Il “tono di voce” che usiamo quando ci relazioniamo con qualcuno è un aspetto importantissimo per rendere efficace il messaggio. Si tratta di un aspetto che è innato a noi: applichiamo senza rendercene conto questo concetto anche senza aver studiato e concettualizzato gli aspetti che stanno alla base del fenomeno. Usiamo linguaggi diversi in funzione del contesto e dell’interlocutore: quando ordiniamo un caffè al bar, quando dobbiamo parlare ad una platea, quando siamo in ascensore con uno sconosciuto. A volte c’è di mezzo l’imbarazzo per non saper se dare del lei o del tu. Le nostre parole cambiano a seconda di quanto siamo coinvolti nell’argomento, a seconda di quanto sappiamo essere importante ciò che diciamo: penso ad esempio all’importanza di un colloquio di lavoro, che può cambiarci la vita.
Nella scrittura vale lo stesso principio, tuttavia non sempre sappiamo chi ci leggerà: talvolta non conosciamo il nostro interlocutore, e questo aspetto ci mette a disagio perchè siamo indecisi su quale tono sia più indicato.
Spesso, quando si scrive di un prodotto o di un servizio, vorremo che tutti si sentissero coinvolti – senza escludere nessuno – eppure sappiamo che non è possibile. Il linguaggio si riduce allora a descrivere quanto fantastico è il nostro prodotto, e quali incredibili vantaggi disporremo se lo acquistiamo. Mettiamo al centro il prodotto, e noi relegati alla funzione di meri utilizzatori. Usiamo verbo come “consentire” e “permettere”, che fanno cadere dall’alto anche il migliore dei vantaggi: la persona usata è il noi, che conferisce al discorso una sorta di intaccabilità.
In questo modo, tuttavia, avremo creato una distanza incolmabile tra noi e il cliente: allora dobbiamo ripartire mettendolo al centro, facendolo sentire al centro della storia che gli stiamo proponendo, parlandogli in modo sincero dei suoi vantaggi piuttosto che dei nostri benefici. Mettersi sullo stesso piano è diventata la “nuova” (uso le virgolette perchè tanto nuova non è più) urgenza: dobbiamo parlare la sua lingua, e per far questo è indispensabile prima di tutto conoscerla. Ascoltare le persone che usano il nostro prodotto è il primo passo da fare, per mettersi sullo stesso piano e capire cosa veramente è importante per loro. Solo così possiamo migliorare il prodotto e attrarre a noi delle persone che porranno fiducia su ciò che stiamo raccontando.
Quante volte invece si pensa solo alla distribuzione del messaggio, a raggiungere più persone possibile? Il più delle volte non sono esenti da questo atteggiamento neppure i luoghi di incontro con le persone, i social media, perdendo l’opportunità di stringere una relazione di fiducia che in latri modi non è possibile avere: penso ad esempio ai casi in cui c’è una catena di distribuzione tra il prodotto e il cliente, che funziona da barriera che sta a noi abbattere.