Il Nuovo Quattromila delle Alpi

“4000 metri: la quota simbolo delle Alpi occidentali, una quota che esercita un tale fascino da porre ingiustamente in secondo piano ogni rilievo minore. I primi esploratori di queste montagne si lasciarono incantare solo in parte dal livello di altitudine. L’ideale che li spronava era soprattutto un romantico senso della natura: da una parte un insaziabile desiderio di luce limpida e di vette interminabili e dall’altra l’incessante stimolo proprio degli studiosi di geologia, glaciologia, geografia, botanica o anche di storia, filosofia e letteratura. Queste componenti razionali ed irrazionali si fondono, a mio parere, nel mondo dell’esplorazione alpina, a cui si era spinti da impulsi differenti. Le Alpi occidentali funsero da campo d’azione e da “laboratorio” per entrambe le categorie di esploratori, sia per quelli animati da un implacabile desiderio dell’ ignoto sia per quelli sollecitati da una tormentosa ricerca dell’inesplorato. Alla fase delle esplorazioni fece seguito quella delle ascensioni: fra il 1810 e il 1865 furono conquistati 42 “Quattromila”. A questo periodo risale la «golden age» degli inglesi che va dalla metà del XIX secolo al 1865, anno della scalata del Cervino. Con la conquista del Dente del Gigante, nel 1882, si conclude il “Periodo argenteo” delle imprese felici.
Da allora molte cose sono cambiate. Le spedizioni alpine già da lungo tempo non sono più prerogativa dei possidenti dell’Inghilterra vittoriana, di guide d’élite, o di ricchissimi industriali ed intellettuali, bensì possono essere compiute da chiunque. È invece rimasta immutata la volontà di sottrarsi alle condizioni di vita degli agglomerati urbani ed alle limitazioni della vita in società, così come è rimasto invariato il desiderio di confrontarsi da vicino con le forze elementari della natura. Del passato è sopravvissuto anche un certo aspetto sportivo secondo l’esempio britannico del XIX secolo.
La natura dell’alpinista è stata definita già un secolo fa da Eugène Rambert, professore di letteratura francese di Losanna, il quale insegnava che l’alpinista è “in sostanza un uomo che ama l’avventura e che considera la società moderna e il suo modo di vita come una prigione”. Non sempre tuttavia la montagna rappresenta un isola rispetto al ritmo della vita nella moderna società industriale legata al mito del progresso inarrestabile, anch’ essa viene contaminata. E’ di moda essere in forma. Le vette vengono scalate una dietro l’altra spesso nel corso di brevi escursioni, per poi tornare alla routine quotidiana in attesa della successiva opportunità per aumentare il numero delle cime scalate e cancellarle dalla lista. I primatisti mirano a compiere, nello stile della competizione sportiva, imprese sensazionali e fruttuose. Sarebbe tuttavia errato generalizzare. Tali tendenze si sono riscontrate solo sul finire del XX secolo ed inoltre non in proporzioni notevoli, bensì in maniera limitata.”

Helmut Dumler da: “Il Nuovo Quattromila delle Alpi” ed. Zanichelli 1990

Ricordo di Gaston Rébuffat, di Andrea Di Cesare

Di Gaston Rébuffat amo ricordare soprattutto le immagini che lo ritraggono in cima alle guglie del Massiccio del Monte Bianco. Nessun altro, più di lui, ha saputo, nel corso della propria attività alpinistica, unire l’azione fisica al vero estetismo che fa di un alpinista anche un artista, che sappia comunicare a un vasto pubblico le emozioni più profonde capace di trasmettere la montagna, non solo terreno di performance sportiva, luogo in cui coronare discutibili record, ma dimensione poetica, lirica, in cui l’alpinista è romanticamente compreso in un totale accordo con la natura e – se vogliamo – il creato.

Spesso in queste immagini Rébuffat è solo, solo su una cresta, uno spigolo, una guglia svettante sui ghiacciai, a un passo dal cielo. Ciò mi ricorda certi concerti di musica classica, concerti per pianoforte e orchestra, in cui il pianista, romanticamente, affronta in “solitaria” l’intero complesso di strumenti, così come Rébuffat, in completa solitudine, affronta il Monte Bianco.

Non si può ricordare Gaston Rébuffat disgiunto dalla sua macchina fotografica. Sembra quasi che questo indimenticabile alpinista affrontasse le intere fatiche di una salita unicamente per coronare un magnifico scatto fotografico, da tramandare alla storia. E lui nella storia ci è entrato a pieno titolo.

E tra i titoli dei suoi libri, dobbiamo ricordare “Stelle e tempeste” e “Gli orizzonti conquistati”, opere in cui questo artista ci ha saputo trasmettere tutto il suo trasporto per la montagna, in una unione perfetta tra uomo e natura. Tradotti in varie lingue, restano dei classici, scritti da uno fra gli alpinisti più “classici” del secolo scorso. L’alpinismo come lo intendeva Rébuffat purtroppo sta morendo, soppiantato, anzi, schiacciato dall’arroganza, dall’ignoranza di nuove generazioni di “arrampicatori” che nulla sanno della montagna, se non farsi belli della forza dei propri muscoli, capaci di far loro superare difficoltà sempre più estreme su vie preventivamente spittate. Nulla vi è di poetico in tutto ciò, ma solo dimostrazione di forza, forza bruta capace solo di confermare l’insipienza di certi “avventizi” della montagna, che dovrebbero interrogarsi, prima di tutto, in che rapporto sta un uomo con la parete, se questa viene letteralmente “stuprata” da mezzi tecnologici con l’unico scopo di fargli superare in completa sicurezza un passaggio che, altrimenti, non si arrischierebbe a fare nemmeno su un sasso di fondovalle. Ho scritto questa breve memoria su Rébuffat, nella speranza che qualcuno colga ancora il messaggio di questo grande, etico, alpinista, che aborriva la volgarità della forza in sé stessa. Per Rébuffat forza e tecnica non erano un fine, ma un semplice mezzo per coronare il suo rapporto con montagna e natura. Oggi, invece, sembra prevalga l’uso della forza e della tecnica fini a se stesse, una modalità che finirà per svuotare completamente l’alpinismo dei suoi valori più puri.

Andrea Di Cesare

Il senso della cordata

«Il nuovo e l’ignoto non sono nelle cose: sono nello sguardo. Ogni alpinista sa che sulla cima sarà atteso dalla scoperta descritta in un racconto di Novalis: il protagonista, che, alla ricerca di un senso, ha lungamente esplorato la natura e i suoi bizzarri geroglifici, quando giunge finalmente a sollevare il fatidico velo che cela l’ultimo segreto, scopre l’immagine di se stesso» e, scoprendo se stesso, vede l’umanità intera in una prospettiva nuova “ritrovando” – ed è qui l’autentico senso della “cordata” – i compagni di tante avventure. E inoltre, se colui che si “ritrova” non è semplicemente un compagno ma una sorta di “fratello maggiore” «a cui – per usare le parole di Gaston Rébuffat – si guarda con amore e rispetto, che sorveglia il modo in cui ci si lega e che ha per noi premure quasi materne», la scoperta sarà ancora più straordinaria e sconvolgente perché, mai potremo dimenticarlo, «l’amicizia di una persona così ricca non si compera».

Franco Brevini, docente universitario di letteratura moderna e contemporanea