Internet ci rende peggiori?

In un recente articolo apparso sul New York Times, Farhad Manjoo scrive che “I toni su Internet sono quasi sempre sopra le righe, ma quest’anno lo sono stati più del solito: estremisti di ogni tipo riescono a spiccare nel rumore di fondo e ottenere più visibilità a scapito di chi ha toni più pacati e ragionevoli, rendendo di fatto Internet un posto inospitale”. La tesi, ripresa da Il Post, è che parte della sovreccitazione online sia dovuta ai tempi in cui viviamo e alle notizie che riceviamo, ormai quotidianamente, su attacchi terroristici, uccisioni di massa, sparatorie, razzismo, proteste e violenze di ogni tipo da tutto il mondo. Le informazioni su queste cose vengono condivise rapidamente sui social network e commentate ancora più velocemente, spesso senza pensarci più di tanto o avere un’idea precisa di quali siano le cause e le circostanze in cui si sono verificati determinati fatti. Manjoo scrive che i social network contribuiscono ad alimentare un circolo vizioso di azione e reazione: “La reazione di Internet a una determinata situazione diventa parte e seguito della storia, così da intrappolare i media in una escalation, in un giro infinito di 140 caratteri, di reazioni d’impulso e istantanee”.
Secondo Carr Nicholas, autore del libro “Internet ci rende stupidi?“, la rete rende più rapido il lavoro e più stimolante il tempo libero ma, mentre usiamo a piene mani i suoi vantaggi, stiamo sacrificando la nostra capacità di pensare in modo approfondito. Abituati a scorrere freneticamente dati tratti dalle fonti più disparate, siamo diventati tutti più superficiali.
Eppure John Perry Barlow, uno dei più famosi attivisti per la libertà della rete, scrisse nel 1996 che “con maggiori capacità di comunicazione e la possibilità di raggiungere direttamente gli individui si genera un tipo di comunicazione migliore, più gentile e amichevole”.
Scrivevo in un post esattamemte un anno fa che “l’internet non salverà mai il mondo, per il semplice fatto che l’internet siamo noi, la rete siamo noi. Dobbiamo superare il “vecchio” dualismo tra reale e digitale. Ogni tecnologia incorpora una cultura ed è a quella che reagiamo bene o male. Non è insomma la tecnologia il problema, ma come al solito siamo noi.”
Non esiste il “popolo della rete”, esistiamo noi ed esiste la responsabilità per le nostre azioni. Dire che internet sta mettendo in pericolo la nostra capacità di pensare in modo approfondito è sbagliato, perchè internet non fa altro che rispondere alle nostre azioni. Come dire che internet sta mettendo in pericolo la nostra capacità di incontrarsi di persona perchè ci relazioniamo sempre di più on line. Ciò che ci manca è piuttosto una sorta di educazione al vivere digitale, che ci metta in condizione di trovare nel digitale quello che può arricchire la loro vita: un’educazione civica e del gusto alla vita in rete.
Internet non ci rende peggiori, è che mostriamo in internet la nostra parte peggiore. Facciamocene una ragione.

Stiamo andando verso il marketing esistenziale

Lo scenario contemporaneo entro cui si sta muovendo colui il quale fino a poco tempo fa veniva etichettato consumatore, è oggi per molti caratterizzato da una buona dose di incomprensibilità.
All’interno dei mondi del marketing e della comunicazione, che hanno sempre viaggiato paralleli, c’è l’impressione che tutto sia stato già provato. Il consumatore è sempre meno prevedibile, è ormai diventato infedele e la comunicazione di marca è di nuovo costretta ad un cambio di paradigma che si basa sull’individuazione di nuove narrazioni che rispondano a veri criteri di autenticità per i diversi profili di pubblico. A partire dagli anni novanta, il consumatore è diventato sempre più complesso e meno lineare nei suoi percorsi di consumo: è diventato più sensibile alle novità di mercato, più esplorativo e quindi infedele, più individualista e con un maggiore bisogno di rinnovarsi. Assistiamo alla crisi della segmentazione del consumatore, e perciò non rimane altra strada che considerarlo un individuo sempre più informato e che sa di poter disporre nei confronti dei marchi di un’influenza che in passato non aveva. Lo stesso individuo è ora in grado di mettere seriamente in crisi l’intero mondo della pubblicità on line: assistiamo ad una crescita esponenziale dell’utilizzo degli “ad block“, ovvero strumento che bloccano ogni forma di pubblicità.

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Ma allora come possono fare le marche a raccontare il loro prodotto? Il punto della questione, che mi sta davvero a cuore, è che nel campo del marketing e della comunicazione produciamo quotidianamente strategie che mettono in campo esperienze superficiali, che mettono al centro un consumatore prototipico che è alla ricerca di sensazioni ludiche, di entusiasmo, di cose stucchevoli. Inseguiamo cioè l’inganno, e la cosa più sconvolgente è che il consumatore questo lo sa, ma cade consapevolmente nella trappola.

Trovo veramente illuminante a questo proposito le parole di Stefano Gnasso, (in Existential Marketing, scritto con Paolo Iabichino) quando sostiene che il marketing debba restituire esperienze che siano pregne di senso dal punto di vista collettivo: “il prodotto o servizio deve sapere rispondere a una richiesta di senso che orienti e giustifichi l’agire quotidiano, sradicandolo dalla concezione individuale per inserirlo e radicarlo all’interno di un processo sociale che a sua volta sia in grado di consolidare un’identità frammentaria e contraddittoria”.

Secondo lui bisogna, in parole povere – ma è una cosa spaventosa -, pensare in maniera liminale, ossia creando dei progetti che siano “in grado di trasformare gli uomini e le comunità”.
Jonathan Gottschall è arrivato a dimostrare che l’evoluzione della specie umana è strettamente correlata alla sua innata capacità di raccontare e ascoltare storie: l’uomo è un animale narrativo e adesso ha bisogno di nuove morali. Ecco perchè sarà necessario ripartire da ciò che interessa veramente alle persone.
Il grande regista Oliver Stone, intervenuto allo Iab Form di Milano, ha iniziato il suo discorso con una frase bellisisma, che mi è subito entrata nel cuore.

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“Devi avere un piano da seguire e devi credere in ciò che fai per fare un buon prodotto”. Per ottenere il consenso, oggi vitale per ottenere visibilità, è necessario individuare contenuti che, trasformati in narrazione, sopperiscano ad un bisogno di comunità: bisogna pensare in termini di vantaggio proposto alle persone. C’è ora un grande bisogno di umanizzare la comunicazione, parlando delle persone e delle loro storie, che non saranno necessariamente stucchevoli. Rafforzeremo l’idea che ciò che ci fa vivere bene non sono le vittorie, ma l’impegno e la determinazione a fare bene: avremo guadagnato anche la capacità ad imparare dagli errori, e saremo di ispirazione per chi si sente imperfetto, per chi ha paura di non riuscire a fare tutto, per chi è umano e cerca un altro umano.