La paura di sentirsi un perdente

C’era una volta il “principio” della prudenza in montagna: dice Renato Cresta, che si occupa di neve da oltre quarant’anni, dice che oggi è normale vedere scialpinisti che si avventurano su pendii “pericolosi” anche quando il rischio valanghe è 3 (il rischio 3 è detto “marcato”).
Il motivo è semplice: chi sta a casa è un perdente: partire, farsi il selfie e condividerlo su Facebook diventa necessario per sentirsi sempre al centro dell’attenzione. Non si tratta sempre di un problema di informazione, come spesso i media dicono. Rischia anche chi è esperto: la valanga non distingue e neppure perdona.
Il punto è che la sicurezza in montagna non esiste, esiste semmai la nostra capacità di ridurlo. La tecnologia ci rassicura, e siamo disposti a cederle in toto la nostra responsabilità. Indossiamo l’Arva, senza poi saperlo usare e senza aver mai fatto un’esercitazione di soccorso: chi l’ha fatto almeno una volta in vita una simulazione di soccorso da cosa vuole dire autosoccorso in caso di travolto in valanga, gli altri si sentono sicuri. Altri ancora indossano i nuovi airbag, senza preoccuparsi del fatto che nulla può contro il perso di un lastrone: equivale a venire travolti da un muro di cemento armato, chi lo considera?
Certo, c’è da considerare che a mio avviso ognuno deve essere libero delle proprie scelte, anche libero di rischiare se crede. In questo momento mi soffermo però a pensare a quanti non sono nelle condizioni di scegliere liberamente, non tanto per mancanza di informazione ma per l’incapacità a rimanere a casa.

I rifugi possono continuare a fare solo i rifugi?

Chi ha almeno 40 anni ricorda ancora, quando era bambino, il tempo in cui i rifugi erano dei luoghi in cui ci si “rifugiava”. Per lo più si avvivava la sera, per partire la mattina seguente per una giornata in quota. Ci si accontentava di mangiare quello che c’era, senza badare troppo ai dettagli, e si andava a dormire in camerate di 15 persone.
Ora però, ce lo dice Ezio Alimonta, propietario e gestore del’omonimo rifugio Alimonta ai piedi della Vedretta degli Sfulmini (Dolomiti di Brenta) e presidente dell’Associazione gestori dei rifugi del Trentino:

Il modo di fare accoglienza nei rifugi, parlo dei rifugi alpinistici, è cambiato semplicemente perché negli ultimi vent’anni è cambiata profondamente la tipologia di chi frequenta le nostre strutture. Nel concreto sono letteralmente andati sparendo quelli che per più di un secolo sono stati i principali fruitori dei rifugi, ovvero gli alpinisti in senso stretto

Cosa succede ora? Pare che sia cambiato il modo di andare in montagna: oggi si arriva in rifugio per pranzo, dopo una passeggiata, e non ci si accontenta più di un semplice minestrone.

La scorsa estate mi stavo tranquillamente pranzando all’interno del Rifugio Treviso, quando all’improvviso scende un acquazzone e l’interno si riempie di persone. Fioccano le ordinazioni: vengono richiesti capuccini non troppo caldi e con latte a parte, latte macchiato ma mi raccomdando non troppo, caffè macchiato in schiuma cremosa e abbondante, e via dicendo… Percepisco la tensione di Mara che inizia a correre da un tavolo all’altro, mentre alcuni ospiti iniziano a spazientirsi per l’attesa. Intervengo: “Stai tranquilla, che sarà mai? Ciascuno aspetterà il proprio turno”.
Ricordo ancora lo stupore di Marina, gestore del Rifugio Crosta, che mentre ero presente ricevette la chiamata da un ospite che chiese per la sera “una camera singola con bagno privato in camera, grazie”.
C’è sicuramente un tempo passato in cui la sera, in rifugio, si cantava tutti insieme. Oggi, se lasci un windstopper incustodito sopra una sedia, dopo 30 minuti non lo ritrovi più (capitato anche questo, al Rifugio Pradidali, gestito da una persone squisita: Duilio Boninsegna). Ma capita anche di peggio: in alta quota scompaiono regolarmente piccozze e scarponi. Rassegniamoci, viviamo nell’era in cui se cerchi su Google “ladri in rifugio” viene fuori di tutto. Ma, paradossalmente, solo da pochi anni si inizia a parlare di economia del dono: sarà proprio perchè, mentre in passato era naturale, ora è diventata un bene preziosissimo.
Ma possiamo ora invocare un “ritorno” all’idea ormai sorpassata di rifugio come semplice ricovero? Probabilmente no, anche gli alpinisti in senso stretto si sono ormai abituati alle comodità. In realtà già c’è una distinzione fatta dalla natura, tra i rifugi facilmente accessibili e quelli non alla portata di strade e funivie. Più volte, camminando in montagna, mi sono chiesto perchè, a tutela della funzione di rifugio, non venga attuata una classificazione, in modo chiaro e immediatamente capibile dai fruitori. Ci sono rifugi che ora si trovano lungo strade ad alta frequentazione: caso emblematico è il Rifugio Passo Sella, ora trasformato in resort di lusso. Invoco davvero una classificazione a stelline: ai rifugi più spartani assegnerei dieci stelline, una stellina o mezza stellina al rifugio lungo la strada.

Wanderlust: l’irresistibile desiderio di andare in montagna

C’è chi sta bene a casa propria, sta bene nelle vesti del pantofolaio e passa la domenica seduto sul divano, a guardare la tv. Ma c’è anche chi non riesce a stare un attimo a casa. Il fenomeno è noto come wanderlust: la “sete” di scoprire nuovi posti non si esaurisce mai. Secondo alcuni studi il fenomeno sarebbe collegato ad un gene del DNA, il DRD4, che è associato ai livelli di dopamina nel cervello.
Un altro gene, il DRD4-7R, è stato rinominato il gene della Wanderlust, grazie alla sua correlazione con grandi livelli di curiosità e irrequietezza. Il gene non è presente in tutti: solo il 20% della popolazione ce l’ha ed è più comune nelle regioni in cui il passato e la storia hanno spinto i popoli a migrare.

Secondo un altro studio fatto da David Dobbs della National Geographic, il gene DND4-7R apparterrebbe a persone che sono “più predisposte al rischio, a esplorare nuovi posti, cibi, idee, relazioni, droghe o opportunità sessuali”. Dobbs non tralascia l’aspetto delle migrazioni, confermando che questo gene è più comune tra i popoli moderni che hanno affrontato (e tutt’ora affrontano) una storia di spostamenti e trasferimenti nel tempo.

Secondo un’altra ricerca di Garret Lo Porto dell’Huffington Post, il gene DRD4-7R è causato da un comportamento che risale ai tempi dell’uomo di Neanderthal, il che renderebbe chi lo possiede completamente “fuori controllo”.

Finora, non avevo mai letto il desiderio di andare in montagna con questa chiave di lettura. C’è un enorme quantità di persone che conducono durante la settimana una vita apparentemente normale, ma in realtà sanno che si stanno caricando per il weekend che passeranno in montagna. E passano tutte le sere della settimana a fantasticare studiando guide e documentandosi. Queste persone hanno al loro interno l’impulso all’esplorazione. Io stesso, in tempi neanche troppo remoti, avevo il bagagliaio della macchina sempre pronto con tenda ed attrezzi per arrampicare. Il venerdì dopo il lavoro si partiva, e non si tornava a casa quasi mai prima di domenica sera. Eravamo più giovani, potevamo dormire dove capitava: il più delle volte la tenda era piantata a poche decine di metri dall’automobile parcheggiata nei pressi dei passi di montagna.

Ho sempre pensato che sentiamo il bisogno di avvicinarci alla natura, nella misura in cui la via cittadina ci allontana, e nella misura in cui nella nostra testa si è creato uno spazio nuovo, diverso. L’uccellino che è nato un gabbia sarà sicuramente infelice, ma senza sapere in realtà cosa fare.

Nella nostra società è in atto un fenomeno parallelo: sono in aumento i casi di persone che fuggono dalla vita “cittadina” e vanno a stare in posti dove si vive ancora a contatto con la natura. Per esempio così hanno fatto i miei amici Marina ed Enrico, che a primavera del 2008 hanno lasciato la vita cittadina per prendere in gestione il Rifugio Crosta, a 1750 m. d’altitudine, all’imbocco del vallone di Solcio. Posto in un bellissimo alpeggio, dove gli unici rumori sono quelli dei campanacci, distante 12 Km dall’ultimo avamposto “civilizzato”, la piccola cittadina di Varzo. E il loro umore ovviamente è subito salito alle stelle, e mai sceso.
La loro storia è simile a quella di Maurizio e Carla, che nel 2003 lasciano Ferrara per andare a vivere a malga Sorgazza in Val Malene, una vallata a sud di Cima d’Asta, nel gruppo montuoso dei Lagorai.

Persone, un esercito di persone, che avevano bisogno di sentirsi migliori, e vivono il loro “into the wild” in una nuova dimensione. Purtroppo a Christopher McCandless, giovane appena laureato del West Virginia, andò decisamente peggio.